Troppi infortuni? La Nba corre ai ripari e sperimenta gare più corte. Si comincia domenica con Celtics-Nets
Le chiamano “fratture da stress” e sono tra gli infortuni più comuni di cui possa cadere vittima un giocatore Nba. L’ultimo in ordine di tempo è stato Kevin Durant ma, in passato, numerosi sono stati i protagonisti del basket a stelle e strisce che si sono visti condizionare le loro carriere da problemi più o meno gravi agli arti, in special modo quelli inferiori. Alcuni, e Yao Ming è il primo nome della lista seguito, a ruota, da Brandon Roy, hanno dovuto addirittura ritirarsi prima del tempo. Altri, e qui si va in zona Greg Oden, non sono mai riusciti a emergere a causa di ossa che non riuscivano mai a guarire del tutto. Del resto, più il fisico di questi super atleti è spinto al limite, maggiori sono i rischi di infortuni molto più gravi rispetto a quelli della quasi totalità degli sportivi.
L’attuale preseason, poi, ha confermato la sinistra tendenza all’incremento del numero dei problemi fisici: di origine traumatica, o muscolare cambia poco. Nick Young, Lin, lo stesso KD, Beal, Jody Meeks, Humprhies sono solo alcuni di coloro, causa sosta forzata in infermeria, guarderanno la palla a due dell’opening night comodamente da casa.
Per questo quella che, normalmente, verrebbe catalogata come una normale gara prestagionale sta cominciando ad attirare interesse. Il prossimo 20 ottobre, al Barclays Center di Brooklyn saranno di scena Nets e Celtics. Nulla di strano se non fosse per un dettaglio non da poco: la partita sarà di 44 minuti, quattro in meno rispetto ai canonici 48 cui siamo abituati. Quattro quarti da 11 minuti ciascuno, quindi: un’idea che, nelle intenzioni, vorrebbe limitare il logorio fisico e il sovraccarico atletico dei giocatori maggiormente impiegati nelle rotazioni. Fattori alla base di qualunque tipo di infortunio.
Siamo ancora in una fase embrionale per poter anche solo azzardare una previsione sull’efficacia di questo accorgimento; tanto più che la lega ha subito precisato che si tratterà di un unicum (almeno per questa stagione) e che ogni discorso verrà rimandato all’anno prossimo, quando il tutto potrebbe essere testato nell’ambito della D-League di sviluppo. Tuttavia, anche al netto del carattere provvisorio dell’iniziativa, non si possono non notare due aspetti:
– La Nba si sta ponendo effettivamente il problema dei troppi infortuni nel corso di una stagione che, per le squadre contendenti al titolo, arriva a toccare (e, in alcuni casi, superare) le 100 partite. E, se per ragioni televisive e di marketing, ridurre il numero di gare non è al momento pensabile, si è cercata una via alternativa esperibile in tempi brevi. Del resto, il vero patrimonio Nba sono le superstar: una lega con i vari Kobe, Rose, Rondo (tanto per fare i nomi di tre big che si sono rotti a stretto giro di posta negli ultimi anni), LeBron, Durant a mezzo servizio causa infortuni non è conveniente per nessuno. Tanto meno per Adam Silver che, per il “suo” prodotto, si fa pagare fior di miliardi da mezzo mondo. Questo spiega perché, al di là dell’Atlantico, qualsiasi proposta che contribuisca a migliorare la qualità dello spettacolo offerto, viene sempre vagliata con la massima attenzione;
– Come era facilmente prevedibile cominciano ad arrivare i primi responsi positivi da parte di giocatori (James in testa) e allenatori. Probabilmente i più favorevoli ad un cambiamento che, sebbene non sia da ascrivere alla voce “rivoluzioni copernicane”, promette comunque di incidere sui futuri rapporti di forza tra le squadre. Una riduzione del numero di infortuni vorrebbe dire un aumento del livello di competitività complessivo. Soprattutto durante i playoff, quando le tossine accumulate nel corso dei sei mesi precedenti, tra “back to back” e lunghissime trasferte via aerea, cominciano a farsi sentire. E avere le rotazioni al completo quando conta davvero, cioè da aprile in poi, è il sogno di ogni head coach che si rispetti.
C’è chi ha già calcolato che gare da 44 minuti equivalgano a sette partite in meno nell’arco della stagione. Se è per favorire uno spettacolo migliore di quanto la Nba già non sia, ben venga. Adesso, però, conta solo il presente: un presente che racconta di 2014/2015 addirittura migliore del suo predecessore. Quindi mettiamoci comodi e godiamoci ciò che la lega più bella del mondo ha da offrire. Per le rivoluzioni, copernicane o meno, c’è ancora tempo.