STORIE DELL'ALTRO BASKET - When we were Sacramento Kings
Ci sono treni che passano una volta nella vita. Prenderli o perderli è questione di un attimo, un rimbalzo, una palla persa, un tiro di Robert Horry che entra o uno di Peja Stojakovic che non tocca nemmeno il ferro. Tanti piccoli dettagli, infinitesimali nella loro singolarità, ma che presi nel complesso fanno tutta la differenza del mondo in una partita, una serie, una storia. La tua, quella degli altri, forse anche quella dell’intera Nba.
I Sacramento Kings incarnano perfettamente il concetto di sliding doors, di ciò che poteva essere e non e stato, di quanto possa essere labile il confine tra inferno e paradiso, tra estasi e amarezza, tra legittimo orgoglio e perenne rimpianto. Dimenticate l’informe ammasso di talento ingestibile dei nostri giorni. Anzi, no. Tenetelo bene a mente. Perché tutto ciò che è (o non è) oggi, è semplicemente il frutto di ciò che è stato (o non è stato) ieri.
Flashback. Nel 2001/2002 i Kings sono, senza mezzi termini, la migliore squadra della lega. Con tanto di 61-21 a certificare un dominio in regular season a tratti imbarazzante. E questo al netto del più improbabile dei roster a disposizione di coach Rick Adelman. Qualche nome? In cabina di regia c’è Mike Bibby sul cui altare era stato sacrificato Jason “White Chocolate” Williams; in guardia Doug Christie, scartato anni prima dai Clippers, specialista tanto in difesa quanto nella curiosa arte di risposarsi con la moglie ogni anno; in ala piccola Peja Stojakovic un serbo fatto a modo suo ma che ti fa pagare i flottaggi in maniera devastante; al suo opposto Chris Webber, impegnato a riscrivere i libri di storia del Gioco; nel pitturato, a dimostrare agli yankee che per giocare da 5 non servono solo i muscoli ma anche il cervello, Vlade Divac; dalla panchina Scott Pollard e i suoi capelli, tinti e ritinti secondo tutte le variazioni possibili e immaginabili dell’iride e un Hedo Turkoglu non ancora “Brother Hedo”.
“The Greatest Show on Court”, aveva azzardato qualcuno nella stagione precedente, comunque prima che i Lakers gli passassero sopra come un caterpillar. Quindi ecco, magari “the greatest” proprio no, però all’ARCO Arena ci si diverte eccome: cicloturistica, come detto, nelle prime 82, 3-1 ai malcapitati Jazz al primo turno di playoff, 4-1 ai Mavs al secondo. Prevedibile, scontato, inevitabile. Soprattutto in previsione di quel che tutti aspettavano da inizio stagione: il redde rationem, di nuovo contro i Lakers, alle finali di Conference. Vuoi perché, negli anni precedenti, erano sempre e gialloviola a spazzare via sogni e speranze in postseason di Sacramento; vuoi perché tra la stessa capitale della California e la sorella risplendente dei lustrini di Hollywood non è mai corso buon sangue. Men che meno dopo che Phil Jackson ha la bella idea di apostrofare i chiassosi tifosi locali come “vaccari poco istruiti”.
Quanto basta a mandare fuori giri i già caricatissimi Kings che, in gara 1, perdono di 7 e vedono i Lakers portare a 12 il numero di W esterne consecutive nei playoff. Ruolino che, però, si interrompe già dalla partita successiva (96-90), causa un Bryant alle prese con una poco felice riedizione del “flu game” jordaniano. In gara 3, invece, ci pensano Bibby e Webber (50 punti in due) a riprendersi il fattore campo, ammutolendo lo Staples Center (103-90).
Ma è alla quarta partita che, nell’impianto angeleno, tornano a farsi vedere quei fantasmi che si credevano sepolti per sempre. Nel secondo quarto si arriva, addirittura, al 48-24. Un massacro, senza mezzi termini. E un 3-1 da ribaltare a Sacramento, contro QUESTI Kings è pressoché impossibile. Ed è per questo che che i padroni di casa si decidono a risalire, minuto dopo minuto, punto dopo punto, possesso dopo possesso. Fino al 98-93 meno di 60 secondi dalla sirena finale.
Da qui in avanti, non ci fossero le immagini reperibili sul web, il racconto sembrerebbe avvolto da quella sottile coltre di improbabilità che circonda ogni grande storia che si rispetti. Canestro di Bryant, mirabile possesso difensivo e scontato “Hack-a-Shaq” da parte dei Kings intenzionati a spezzare il ritmo: ma il 34 fa 2/2 dalla lunetta ed è -1. si gira di là e stavolta è L.A. a fare fallo sul lungo, venendo premiata dall’1/2 di Divac dalla linea della carità. Timeout e, poi, rimessa: Jackson chiama la penetrazione di Bryant che si butta dentro e sbaglia, così come O’Neal che si vede il tap-in sputato dal ferro prima e respinto da Divac poi. Due secondi. Finita. Per tutti. Non per Robert Horry. Vale a dire l’unico uomo che non vuoi libero sul perimetro con una palla vagante e un cronometro che sta per segnare 0.0: 100-99, sirena che suona e Lakers che si salvano con il primo e unico vantaggio della peggior partita di post season da anni a questa parte.
“E’ una vita che li metto, dovrebbe leggersi qualche giornale ogni tanto”, dirà poi “Big Shot Rob” a un Vlade che, in conferenza stampa, cercò di sottolineare la componente fortuita di quel tiro.
Ma la fortuna è qualcosa che non ti piove dal cielo. Devi anche sapertela costruire. Che è ciò che i bi-campioni in carica fanno tra la gara 5 persa all’Arco Arena e il successivo knock-out game in programma al 1111 di Figueroa. Dove Shaq e Kobe decidono che andrà come dicono loro: 41 punti e 17 rimbalzi l’uno, 31 e 11 l’altro, 106-100 e tutti a gara 7. Quella della storia. Del tutto o niente. Da dentro o fuori. It’s playoff basketball, baby!
E, similmente alla fortuna di cui sopra, anche l’epicità non si manifesta per caso. Serve il concorso di più fattori. Gli stessi di un 2 giugno più rovente che mai. Lakers e Kings si scambiano il vantaggio per 17 volte nel corso dei 48 minuti regolamentari, con l’overtime che si rende necessario dopo l’errore di Shaq sull’ultima sirena. Ma il turning point di partita e serie è di qualche secondo prima. Con i gialloviola avanti di 1 (99-98) a poco più di 17 secondi dalla fine, Adelman chiama uno schema per liberare Stojakovic per un tiro da tre: l’idea sembra funzionare, la rotazione difensiva di Jackson va fuori giri e il serbo si ritrova oltre l’arco per una conclusione comoda. Forse anche troppo: il pallone non tocca nemmeno il ferro. Assurdo: Stojakovic, uno dei migliori tiratori del mondo, è 0/6.
Il supplementare si rivela una guerra di nervi: per dei Kings che non riescono a mantenere il giusto atteggiamento sotto pressione (cinque tiri di fila sbagliati negli ultimi due minuti) ci sono dei Lakers che fanno una fatica del diavolo ad andare a bersaglio. Ma, alla lunga, certe partite bisogna essere abituati a giocarle: e, da questo punto di vista, il vantaggio è tutto per la truppa di Jackson. Che si salva da una nuova capitolazione sul tiro di Christie (108-106 a 15 secondi dal termine) e sigillano l’approdo alle Finals con il percorso netto di Fisher e Bryant dalla lunetta: 112-106, game, set, match and history. Con Shaq che mette la firma a modo suo. E Sacramento? Squadra e città non si riprenderanno mai più, con il brusco risveglio da quel meraviglioso sogno collettivo che coinciderà con un declinare lento e inesorabile.
Ma non è certo finita qui. E non ci riferiamo al 4-0 con cui i californiani sopravvissuti asfaltarono i Nets nella più squilibrata finale per l titolo che si ricordi. Perché questa storia ha due post scriptum.
Il primo, ben poco edificante, ha come protagonista Tim Donaghy, arbitro finito nel mirino di Nba e Fbi a causa del brutto vizio di scommettere su partite da lui dirette. Nel 2008, con la spada di Damocle di tre anni di carcere, rivela urbi et orbi come parecchie partite di playoff, compresa gara 6 del 2002, fossero state indirizzate( a livello arbitrale) in modo da massimizzare i profitti della lega stessa. Con analyst e addetti ai lavori che si (ri)mettono a scavare nei gangli regolamentari di una delle serie più belle e controverse di sempre, senza, per questo, trovare elementi sufficienti a suffragare le parole di Donaghy: tanto, vale, quindi, concentrarsi sul secondo post scriptum. Che, poi, è quello che dà un senso a tutto.
Peja Stojakovic, per anni, non si è mai perdonato quello 0/6 e, soprattutto, quell’ultimo tiro così. E, stagione dopo stagione, ha passato ore ed ore a prepararsi, mentalmente e tecnicamente, per un momento che riequilibrasse il karma e gli concedesse la rivincita che sentiva di meritare. Una seconda occasione che, anche agli atleti di alto livello, non sempre capita.
Ma, come Shaq e Kobe, anche Peja ha saputo costruirsi la sua fortuna. E’ suo il 6/6 in gara 4 che, nel 2011, contribuisce allo sweep dei Dallas Mavericks proprio a danno dei Lakers, in quello che sarà il primo passo verso il titolo:
La più dolce delle vendette. O, se preferite, l’unica speranza possibile per i Sacramento Kings. Che un domani potrebbero ritrovarsi al cospetto di quel treno che passa una volta. Se non nella vita, almeno una ogni tanto. E quel giorno quel tiro dall’angolo andrà dentro. In un modo o nell’altro.