STORIE DELL'ALTRO BASKET - Sheeeeeeeed!
“Stay with Rob!”. E’ la frase che mi viene in mente quando penso ai tempi in cui cercavo di crearmi una memoria storica della NBA divorando VHS e DVD. “Stay with Rob!”, dove “Rob” stava per Robert Horry, ala da Alabama, che in carriera si è divertito a vincicchiare partite di una qual certa importanza in ogni angolo degli Stati Uniti che abbia avuto il piacere di ospitarlo. Rockets, Suns, Lakers, Spurs hanno tutte potuto beneficiare dell’ineguagliabile freddezza sotto pressione (“Non conosco quella parola, per me la pressione è quella che rompe i tubi” cit.) del nativo di Andalusia, ripagato più che degnamente con 7 titoli di campione Nba. “Stare con Rob”, quindi, all’epoca doveva essere inteso in senso letterale, con il marcatore che doveva stargli appiccicato per non concedergli un tiro facile. Soprattutto durante playoff e Finals. Che, poi, quello i tiri, ancorché resi più difficili, li mettesse comunque è un altro discorso: “Stay with Rob!”, poi se la mette comunque amen, almeno ci abbiam provato.
E “Stay with Rob!” è anche quello che sta pensando, o più probabilmente urlando, anche Larry Brown, coach dei Detroit Pistons, in una calda serata di giugno del 2005. Il destinatario della richiesta, però, decide di non ascoltarlo, andando inspiegabilmente a raddoppiare Ginobili in angolo: al governatore in pectore di Bahia Blanca basta una frazione di secondo per leggere la situazione, scarico ad Horry lasciato libero appena dietro l’arco e “ciuff”, Palace di Auburn Hills espugnato e gara 5 di finale agli Spurs, che vinceranno poi il titolo alla successiva gara 7.
Generalmente quando si parla di grandi giocatori Nba l’errore che si fa è categorizzarli, limitandone la dimensione a un singolo aspetto del loro gioco. Qualcosa che non ci si può permettere, soprattutto quando l’oggetto del discorso è Rasheed Abdul Wallace, un genio assoluto della pallacanestro fin dai tempi di Simon Gratz High School, quando fu affidato da mamma Jackie a coach Bill Ellerbee. Un unicum cestistico, uno scienziato del gioco che può permettersi di spiegare a tutti, allenatori compresi, come gira il mondo all’interno di un palazzetto con parquet.
Già, gli allenatori. Importanti ben al di là di quello che ci si potrebbe aspettare da un uomo del genere. Tre in particolare, raccontati da Federico Buffa in uno dei suoi racconti più belli e sentiti:
– il già menzionato Ellerbee che, pur nella gestione di un adolescente “complesso” (comunque niente rispetto a quel sarebbe venuto dopo), ne intuisce le straordinarie capacità, invogliandolo a migliorarsi sempre;
– Tennis Young, coach del playground, delle “pick up games”, dei fondamentali sacrificati sull’altare dell’istintività e dell’immediatezza;
– Dean Smith, coscienza dei Tar Heels di North Carolina, che fin dal primo allenamento capisce chi si ritrova fra le mani. Ovvero il giocatore potenzialmente più forte della Nazione.
Trasformarlo in un giocatore pronto per la Nba in appena due anni è la cosa più naturale del mondo. Anche perché uno così non si allena, lo si guarda sbocciare ammirati. E poco importa che i tre di cui sopra siano quanto di più diverso possiate trovare a livello di coaching. Anzi, è proprio questa differenza di influenze a rendere Rasheed unico nel suo genere. Tre stili diversi a disposizione di un singolo giocatore già di per sé capace di leggere il gioco come nessuno prima. Inutile annoiarvi sui suoi trascorsi scolastici e universitari: troppo forte, troppo superiore, troppo tutto. Un uomo tra i bambini. Quasi annoiato da ciò che lo circonda in partita. E ci mancherebbe: lui è Rasheed Wallace, il miglior prodotto di Philadelphia dai tempi di Wilt Chamberlain.
La Nba, dunque. E che il ragazzo, per dirla all’americana, “appartenga” a quel contesto appare evidente sin dagli esordi in maglia Bullets nel 1995/96. La squadra, con Chris Webber e Juwan Howard, è buona, le medie di Sheed pure (10,1 punti a sera) ma uno così ha bisogno di uno spazio “suo”. Che non è un concetto egoistico ma semplicemente la personalissima visione della pallacanestro rasheediana: non un “go to guy” ma parte di un contesto che lui reputi adatto alle sue caratteristiche, indipendentemente dai nomi.
I Blazers, l’anno dopo, non se lo fanno ripetere due volte. Da membro della “Blazermania” a padrone assoluto di Portland il passo è breve. Non tanto, e non solo, per quel che accade in campo: lì, è ovvio, il dominio è completo e totale. Scontato per uno del genere, primus inter pares di un gruppo che cresce anno dopo anno, di pari passo con la sua stella silenziosa. L’Oregon lo ama. Per quello che è, per quello che fa, per ciò che pensa e per come lo manifesta. E’ tutto fuorché scontato. In quello che fa, in quello che pensa, in quello che dice, in come lo dice. Soprattutto agli arbitri, mai sopportati, perché non comprendono la vera essenza del gioco, anzi la vera essenza del gioco e dei giocatori. I 41 falli tecnici della sola regular season 2000/2001, così come la squalifica per sette partite per aver cercato di prendere a pugni Tim Donaghy, si spiegano così.
Fortuna che “Ball don’t lie!”, la palla non mente. Il basket, secondo lui, ha una sua dimensione metafisica in cui l’unica legge cui ubbidire è quella del pallone che rimbalza. E se c’è una chiamata arbitrale che non ha senso d’essere, sarà sempre la palla a riequilibrare la situazione. Fallo inesistente sul tiro? Il libero non andrà a bersaglio. Semplice. “Ball don’t lie!”, il più celebre di tanti neologismi coniati da lui ed entrati nel linguaggio comune.
C’è però uno spartiacque. Anzi, LO spartiacque. Ed è, tanto per cambiare, una gara 7, la costante nel destino di questo principe del gioco. Che da il meglio e il peggio di se quando non c’è domani. E’ la stagione 1999/2000, Wallace è il marcatore principe (16,4 punti a partita) di una squadra che, con l’aggiunta di Scottie Pippen e Isaiah Ryder, avrebbe tutto per puntare al titolo. Condizionale d’obbligo quando di mezzo ci sono i Lakers della prima ondata Kobe-Sahq, che eliminano i Blazers in finale di Conference al termine di sette battaglie punto a punto. Con l’ultima che è un inno al rimpianto, visto il vantaggio in doppia cifra di Portland all’inizio dell’ultimo quarto.
Per la franchigia è un colpo duro, durissimo. che segna l’inizio di un declino interrotto solo in tempi recenti. Le tre successive eliminazioni al primo turno di playoff convincono Sheed a cambiare aria nel 2004. Il secondo spartiacque. Perché vince, finalmente. Alla sua maniera però. Fa in tempo a giocare una partita cattedratica in maglia Hawks (20 punti, 6 rimbalzi e 5 stoppate) prima di venire coinvolto in una trade a tre squadre che lo fa approdare ai Detroit Pistons. Ricordate la storia della necessità di trovarsi nel “suo” contesto ideale? Ecco, MoTown è ciò che ha sempre sognato l’imperscrutabile figlio di Philadelphia. Non un solo fuoriclasse, ma tanti grandi giocatori: Chauncey Billups, Ben Wallace, Tayshaun Pince, Rip Hamilton. E lui, naturalmente, il tassello mancante di un mosaico che porta al titolo, scherzando sulle macerie dei Lakers degli “Hall of Famers” in disfacimento.
Nel lustro successivo Detroit diventa la squadra più continua a Est a livello di playoff e solo lo sciagurato raddoppio su Ginobili di cui sopra e i 48 rintocchi della “campana della storia” della prima versione Cavaliers di LeBron James, impediscono la conquista di un secondo e terzo anello. Il nostro dal canto suo, è in uno stato di onnipotenza tale da potersi permettere tutto, o quasi. Compreso il lusso di provare a “boicottare” l’All Star Game del 2008 – o almeno così sembra suggerire il linguaggio del corpo – in un’interpretazione che è diventata un autentico cult.
Purtroppo, come tutte le cose troppo belle per essere vere, anche l’idillio con il bianco rosso e blu dei “bad boys” finisce. E’ il 2009 e, gentile signora Fatima e figli al seguito, va ai Celtics. Altra finale, altra gara 7. E altra sconfitta, ancora contro i Lakers, avversaria del destino nel bene e nel male.
Poi, il colpo di scena. Rasheed Wallace si ritira. Senza motivazioni apparenti. Per i successivi due anni si hanno rarissime notizie di lui. Si sa poco di dove sia e di cosa faccia. Probabilmente, è proprio lui a voler far perdere le tracce per un po’. In attesa del ritorno, datato 2012, quando prende possesso in toto di Madison Square Garden e tifosi Knicks. Spike Lee compreso. E poco importa che si tratti sostanzialmente di un cammeo: la “World’s Greatest Arena” ruggisce le rare volte che il suo figlio prediletto mette piede sul parquet. Memorabile la sequenza durante una partita contro i Pacers: gli viene fischiato un fallo su Scola, inesistente dal suo punto di vista. Proteste, primo tecnico, tiro libero sbagliato, “Ball don’t lie!” udito fino in piccionaia, secondo tecnico, espulsione. E uscita dal campo tra due ali di folla adorante.
E’ il suo canto del cigno. Perché sarebbe troppo normale lasciare con un trentello, alla Jordan. Così, invece, è in pieno stile Sheed. Ad aprile del 2013 arriva il secondo e definitivo ritiro che gli spalanca le porte, nell’estate successiva, della carriera di allenatore. Ai Pistons, ovviamente, come assistente di Maurice Cheeks. Dura poco: l’arrivo di Stan Van Gundy significa mancata inclusione nel nuovo staff.
Forse era destino, un segno di come l’idea di Rasheed Wallace che allena sia ancora troppo strana per accettarla e abituarsi. In fondo, stiamo sempre parlando di uno che, a quarant’anni, va ancora a dormire in pantaloncini e scarpe da gioco.
“Because you never know if a game breaks out!”