STORIE DELL'ALTRO BASKET - Petrovic oltre Drazen
L’errore più comune nel raccontare di Drazen Petrovic è quello di far prevalere la dimensione umana rispetto a quella sportiva. Eppure è proprio di uno sportivo che stiamo parlando, uno tra i prescelti dalle divinità del basket. Però, c’è poco da fare, alla lunga la sua particolare e tristissima vicenda umana prende il sopravvento sulla parabola cestistica, Drazen oscura Petrovic senza soluzione di continuità. Un lungo, doloroso e tormentato percorso a tappe di una storia che è solo una piccola goccia all’interno del mare di uno dei più sanguinosi conflitti del secolo scorso. Finisce, così, che ci si ricorda di lui quasi unicamente per la sua vita travagliata piuttosto che per la grandezza d’atleta. Che è ciò che stava per accadere a Magic Johnson quando, non più tardi di due decadi fa, annunciò al mondo la sua sieropositività. In quel momento Earvin prese il posto di Johnson, il dramma personale soppiantò le gesta compiute con la 32 dei Lakers.
Ma è ora di cambiare. Questa volta ribaltiamo il punto d’osservazione. Questa volta Petrovic andrà oltre Drazen, perchè quello che deve restare alla future generazioni è l’immagine di uno dei più straordinari giocatori di pallacanestro della storia. Non quella del ragazzo con l’esistenza segnata dalla disgregazione della Jugoslavia. Per raccontare di quello, dell’amicizia con Divac finita male, di una delle squadre più forti della storia battuta solo dalla storia e dalla guerra, della morte assurda di ritorno da una trasferta in Polonia con la nazionale croata, val la pena rimandare all’immortale “Once Brothers”, capolavoro della Espn che andrebbe distribuito nella scuole per far capire ai giovani a cosa possa portare odiare qualcuno solo perché è “diverso”. Nessuno scribacchino al mondo, compreso il sottoscritto, potrebbe fare di meglio.
Potrebbe, però, provare a raccontare ciò che questo signore è stato sul parquet. Ma, siccome il mio bagaglio di superlativi è molto meno ampio di quel che si creda, val la pena utilizzare una metafora a me cara: Petrovic era il pennello con il quale la fantasia ha dipinto il basket così come avremmo voluto che fosse. Lo chiamavano “Il Mozart dei canestri”. In effetti godersi qualche filmato d’archivio con in sottofondo le migliori sonate del compositore austriaco è un’esperienza mistica, estatica, che rende perfettamente giustizia alla bellezza di ciò che si sta vedendo: gesto tecnico o atletico cambia poco. Quasi noioso scrivere del suo talento: un dono affinato, fin dagli albori, con l’ossessiva ricerca della perfezione, con gli allenamenti alle 5 del mattino, con la ferocia di chi vuol sempre dimostrare qualcosa a qualcuno. Uno così è nato per dominare. E’ il suo destino. L’Europa intera, a cavallo tra gli ’80 e i ’90, è ai suoi piedi: decide lui, cosa come e quando vincere. Tutto, ovviamente, con club (Cibona Zagabria e Real Madrid) e, soprattutto con la nazionale il cui andare in giro a fare incetta di medaglie somigliava a una versione edulcorata degli Harlem Globe Trotters. I 62 punti (SESSANTADUE) mandati a referto contro la Juve Caserta di Gentile padre, “El Diablo” Esposito e Oscar Schmidt, in una delle finali di Coppa delle Coppe più belle di sempre costituiscono la perfetta sintesi della sua onnipotenza nel vecchio continente.
Scontato, perciò, che decidesse di cambiare. Di fare il salto in Nba, l’ultima vetta che gli restava da scalare. La più dura. Si sa il talento senza la motivazione è nulla. Si può anche giocare per i soldi, ma i migliori giocano per il gusto della sfida. Ed ecco perché anche gli anni di Portland, ultimo di un reparto guardie che poteva contare su gente del calibro di Clyde Drexler, Terry Porter e Danny Ainge, non sono andati sprecati. Passare dal sessantelleggiare a piacimento a guardare gli altri dalla panchina, paradossalmente, ha reso Petrovic ancor più forte di quanto già non lo fosse. La forza di tener duro in un contesto simile, sapendo che, lavorando duro, il tuo momento arriverà è stato l’ultimo tassello sulla via dell’immortalità cestistica. E il momento arrivò, oh si. Le due stagioni e mezzo ai New Jersey Nets sono la cometa di Halley di questo sport, passano una volta ogni sessant’anni. Gli americani, all’inizio diffidenti, si trovano di fronte la reincarnazione di Pete Maravich. Solo in salsa europea. Se avete goduto, nel 2011, quando Nowitzki si è preso la Nba a scapito di LeBron James, sappiate che è stato Petrovic ad aprire la strada. Fu lui a far capire che gli esponenti di rilievo del vecchio continente (lui, Sabonis, lo stesso Divac) oltreoceano ci potevano stare, eccome. Recitando il ruolo non di semplice comparsa ma di superstar assoluta. E abbandonate lo stereotipo del giocatore timido e silenzioso: quello era Drazen fuori dal campo. Dentro, invece, giustificava appieno l’altro soprannome, “Il diavolo di Sebenico”, con gare all’ultimo tiro e all’ultimo insulto financo con sua maestà Michael Jordan; il quale, in un’occasione se ne vide stampare in faccia 40. Non andò meglio a Vernon Maxwell, guardia dei Rockets, che ebbe l’ardire di sifidarlo nel pre-gara: “Deve ancora nascere un bianco che mi faccia le scarpe”. Tutto buio, 44 punti, spazzato via dal campo. “Adoro giocare contro Petrovic, ti urla stupidaggini in quattro lingue diverse” asseriva Reggie Miller, un altro i cui istinti competitivi venivano stimolati non poco in occasione dei vari Pacers-Nets. Era stato accettato, le porte del pantheon gli erano state spalancate, aveva dimostrato di appartenere a quel mondo, solo in apparenza ostile.
Poi, siccome il destino sa essere ben più cinico e baro di quanto si creda, Drazen riprese il sopravvento su Petrovic. Per sempre. Il 7 giugno del 1993 un assurdo incidente stradale si porta via un campione e entrambe le sue anime. Quella umana e quella sportiva, così diverse eppure così uguali quando sono confluite in questo ossessivo assoluto toccato dalla grazia del talento. Di fatto un ossimoro su due gambe. Ma è stata proprio tutto ciò a fare di lui ciò che è stato: Drazen Petrovic, il più grande giocatore europeo di sempre.
E come adesso le nuove generazioni ricordano Magic Johnson come il grande playmaker e non più come il sieropositivo famoso, è il momento che anche quest’altro genio del parquet sia tramandato ai posteri per ciò che ha fatto con una palla a spicchi in mano. Il resto è “solo” la storia di un uomo, magari più triste di altre, ma non certamente un unicum nella Jugoslavia di quel periodo.