STORIE DELL'ALTRO BASKET - Nate Robinson, il piccolo grande uomo di Seattle
D’accordo, questa scena la conoscete tutti. Ora immaginate la stessa scena in una notte di Seattle di metà anni ’90:
“Nate che fai ancora lì è tardi. Dai che la cena è in tavola…”
“Un attimo, provo ancora una volta…”
“Ma cosa provi ancora, non vedi che è troppo alto? Come pretendi di arrivare lassù?”
Flash forward. Houston, interno, notte (delle stelle), anno 2006. La vita di Nathaniel Cornelius Robinson, Nate per il resto del globo terraqueo, è stata questa. Un continuo sfidare l’impossibile. E la forza di gravità, paradossalmente, è stato l’avversario più semplice da mandare al tappeto. Centosettantacinque centimetri (usando molta immaginazione) di altezza per centododici di elevazione e tutta la sfacciataggine della ‘two-o-six’ per affrontare, stoppate e schiacciare in testa, sera si sera no, a gente che è il doppio di lui. E, per una volta, non è un modo di dire. Perché l’unica cosa ancor più inspiegabile delle esibizioni sopra il ferro nello Slam Dunk Contest di Houston, sono le stesse identiche cose fatte in partita a gente tipo Yao Ming, due metri e ventinove in olio d’oliva cinese.
Leggenda vuole che il nostro, quando furoreggiava a Rainier Beach High School, avesse iniziato con la pallavolo. Ridotto a più miti consigli scopre i grandi amori della sua vita: il football e il basket. Che sono poi i motivi per i quali le università di mezza America lo implorano, letteralmente, di concedere loro il privilegio di pagargli una costosa borsa di studio per atleti. Detto che stiamo parlando di un sicuro vincitore dell’ Heisman Memorial Trophy, quando si tratta di scegliere il suo futuro accademico a University of Washington, Nate segue la via della palla a spicchi.
Dopo tre stagioni, al momento di passare al piano di sopra, a una prima occhiata nessuno sembra dargli una chance. Nessuno, nessuno? No. Ci sono i New York Knicks che, al termine del draft del 2005, decidono di spedire Kurt Thomas in Arizona per prendere dai Suns Quentin Richardson e lo stesso Nate.
Il quale, nel suo anno da rookie, mostra tutto ciò di cui è capace. Nel bene e nel male. Salta una sola partita di quella stagione, partendo 26 volte in quintetto e mantenendo medie più che discrete (9,3 punti e 2 assist a gara). In novembre stoppa, come detto, il nostro cinesone preferito (bene) mentre, un mese dopo, si fa squalificare per dieci turni per un improvvisato incontro di wrestling con J.R. Smith (male, malissimo). Episodio che fa emergere la sinistra incapacità del piccoletto a tenere acceso il cervello con l’adrenalina in circolo. Certo l’ambiente non lo aiuta, con bassi (tanti) e alti (pochi) che faticano a bilanciarsi. Fatte salvo altre due memorabili partecipazioni alla gara delle schiacciate. Nella prima, datata 2007, cede l’onore delle armi a Gerald Green; nella seconda (2009), in versione ‘KryptoNate’, strappa lo scettro a Dwight Howard saltandogli sopra. No, non è un errore di battitura, non mancano le virgolette. Gli salta proprio sopra.
Il rapporto di amore-odio con il Madison Square Garden si interrompe un anno dopo quando, in cambio di Eddie House, finisce ai Boston Celtics. Teoricamente in qualità di cambio per Rajon Rondo (non ridete), in pratica impegnato in un memorabile testa a testa con Delonte West per accaparrarsi il ruolo di personaggio della squadra. E’ una stagione che mette a dura prova i nervi d coach Doc Rivers che si ritrova fra le mani uno capace di “mandare fuori ritmo l’attacco dei Lakers dello Showtime” (cit.) e, contemporaneamente, di vincere la partita da solo in un quarto a scelta. Peccato che tenda a prevalere più la prima parte che la seconda.
La trade (che coinvolge anche Perkins) e gli Oklahoma City Thunder, più per disperazione e cristiana rassegnazione che per reali esigenze tecniche, non lascia tracce significative. Nel senso che a gennaio, dopo 4 non indimenticabili apparizioni in maglia Okc, viene tagliato. Poco male: ad attenderlo c’è un contratto con i Golden State Warriors. L’esperienza nella baia non è nemmeno malvagia (11,2 punti e 4,5 assist di media) tant’è che nell’estate del 2012 coach Thibodeau e i Bulls, alle prese con il secondo dei tanti infortuni di Rose, decidono di puntare sul ragazzo da University of Washington. Un azzardo ripagato da una stagione memorabile, culminata nella spettacolosa gara 4 al primo turno di playoff contro i Brooklyn Nets: 29 punti tra ultimo quarto e primo overtime (a un punto dal record di Jordan per punti segnati in un singolo quarto in maglia Bulls: 24 a 23) prima di uscire per falli nel secondo supplementare. I 25 minuti in cui, mediamente, resta in campo sono quelli che elettrificano lo United Center. Sembra la quadratura del cerchio.
Sembra. Perché uno del genere non è fatto per trovare quadrature. E nemmeno per sfruttare la migliore stagione mai disputata per dare una svolta in positivo alla sua carriera. Il successivo biennale con i Nuggets si fa ricordare più per i continui cambi di numeri di maglia (prima il 10 in onore di Messi, poi il 5 per fare un favore ad Arron Afflalo) che per altro.
E a chi pensava che il ritorno ai Celtics (con il redivivo Jameer Nelson in Colorado) dello scorso gennaio potesse essere l’inizio di un nuova pagina del libro sulla personale interpretazione di Robinson dell’ Irish Spirit, la storica franchigia del Massachusetts risponde con il taglio pressoché immediato.
Ad oggi le cronache raccontano di una free agency che si protrarrà, presumibilmente, fino al termine della stagione. Nell’attesa e nella speranza che qualcuno abbia la forza, la voglia e quel pizzico di incoscienza di ingaggiare il ‘Mozart di Seattle’.
Forza, voglia, incoscienza: tutto ciò che animava quel bambino che, nelle notti di Seattle, continuava a saltare nella speranza di arrivare al ferro. Sfidando l’impossibile.