STORIE DELL'ALTRO BASKET - "L'uomo più solo del basket Nba"
“Steph perché te ne vai?”
“Non mi piacciono gli hot dog che avete qui…”
L’onore dei paninari di Minneapolis fu comunque salvato abbastanza presto, dato che apparve chiaro fin da subito che Stephon Marbury se ne stava andando per altri motivi, non certo per quel dialogo consegnato alla leggenda e arrivato fino a noi attraverso alcuni dei migliori cantori della storia di questo gioco, tra cui il mostro avvocato preferito.
Problemi nel trovare l’accordo per l’estensione del suo contratto con i Timberwolves, certo. Ma soprattutto perché, un newyorkese purosangue come lui, non poteva accettare di essere il secondo di qualcuno. Tanto meno di quel numero 21 che era sulla bocca di tutti già da un po’. Troppo per uno come Stephon che ritiene, a torto o a ragione, di essere lui, sempre e comunque, il centro di gravità permanente della squadra in cui gioca.
Eppure avrebbe dovuto sapere che a uno come Kevin Garnett interessavo solo una cosa: vincere. E, per la prima volta dal suo esordio tra i ‘pro’ nel 1995 direttamente dall’high school, i T-Wolves erano riusciti a mettere insieme le prime stagioni da playoff nella storia della franchigia, con le eliminazioni al primo turno contro Rockets e Sonics che potevano e dovevano essere i necessari passaggi prima di diventare qualcosa di più di una nidiata di giovani di belle speranze. E invece, nel 1999, subito dopo il lockout (che, secondo alcuni, avrebbe avuto tra le sue cause i 126 milioni di dollari in 6 anni che la squadra del Minnesota aveva garantito a KG l’anno prima) Marbury prende e se ne va ai Nets. Risultato? 25-25 in una stagione regolare ‘compressa’ e comodo 3-1 Spurs nel primo atto della post season.
Tocca ricominciare tutto daccapo. Per fortuna, però, c’è Malik. Il giocatore, l’uomo, il confidente, l’amico Malik. Quello a cui confessare tutto, quello con cui sfogare la rabbia e la frustrazione di non riuscire ad essere ancor più determinante di quanto già non sia un giocatore di 22 anni che viaggia da tempo ad oltre 20 punti ed oltre 12 rimbalzi di media. Solo che anche lui decide di andarsene, proprio come Marbury. Solo che, stavolta, non c’entrano i Nets o un contratto da rinnovare.
E’ il 20 maggio 2000 quando Malik Sealy, talentuosa guardia dei Minnesota Timberwolves, tornando a casa dopo la festa di compleanno di Garnett perde la vita in un incidente d’auto: il suo Suv viene travolto da un pick up che viaggia contromano. Ed è lì, mentre piange il suo amico scomparso, che ‘The Kid’ capisce quale sarà il suo destino: essere solo, in campo e nella vita, contro tutto e contro tutti.
E se così deve essere, che così sia. L’elaborazione del lutto restituisce al mondo un Garnett diverso. Non più ‘The Kid’, ma ‘The Big Ticket’ o ‘The Revolution’, uno da ammirare per la voglia, la costanza, la determinazione, la ferocia che mette in ogni partita, in ogni cosa che fa. Niente lo scalfisce più, nemmeno la quinta e sesta eliminazione consecutiva ai PO (Spurs e Mavs). “Per quanto tu ti possa allenare, sappi che da qualche parte nel mondo c’è qualcuno che si sta allenando più di te. E quel qualcuno sono io”. E’ un uomo in missione, sa che il suo momento sta per arrivare. E, infatti, arriva.
Il 2003/2004 di Kevin Garnett è, come direbbero al di là dell’Atlantico, for the ages. Non è più tanto solo, con lui ci sono Sam ‘I am’ Cassel e Latrell Sprewell, ma non è questo il punto. Il punto è che si assiste ad una di quelle stagioni che passano una volta ogni tanto. Forse mai: 24.2 punti, 13.9 rimbalzi, 5 assist, 2.2 stoppate e 1.5 recuperi a partita, una superiorità sulla lega e sul mondo a tratti imbarazzante.
L’MVP arriva in maniera plebiscitaria e meritata. Così come il record di franchigia in regular season (58-24) e la prima finale di Conference della storia dei Timberwolves, raggiunta dopo aver eliminato Nuggets e, soprattutto, Kings, in una serie sanguinosa risolta solo alla settima partita. Protagonista, manco a dirlo, il numero 21.
Contro i Lakers degli Hall of Famers, coach Flip Saunders le prova davvero tutte, compresa schierare il suo uomo migliore da ala piccola e da guardia. Ma, nonostante una gara 5 leggendaria, KG e i T-Wolves devono cedere il passo ai gialloviola.
Ancora una volta, però, quello che potrebbe essere un punto di partenza per qualcosa di più diventa, semplicemente, l’inizio della fine. In un dejavù a tratti insopportabile, anche Cassel e Sprewell abbandonano la nave a causa di contratti ritenuti non all’altezza. E Garnett si ritrova nuovamente con il destino della franchigia a gravare interamente sulle sue spalle. Ma stavolta è diverso. Stavolta si ha la sensazione che sia solo questione di tempo. Perché uno così non può permettersi di non vincere, di non avere almeno un anello al dito a testimoniarne l’incredibile impatto che ha avuto nel mondo del basket.
E così, con le stesse lacrime agli occhi del giorno in cui diede l’ultimo saluto a Malik, il 31 luglio 2007 è lui a salutare Minneapolis. Piange mentre stacca personalmente la targhetta con il proprio nome dall’armadietto. Piange perché non avrebbe mai voluto andarsene. Piange perché sente di aver tradito chi ha sempre creduto in lui. Piange perché avrebbe voluto vincere lì. Piange perché ha capito che da solo, e non c’è nessuno più solo di lui – probabilmente “l’uomo più solo del basket Nba” come disse Buffa in una memorabile courtside countdown al termine di una puntata di Nba Action -, non ci sarebbe mai riuscito.
La storia potrebbe anche finire qui. Il Garnett che va a Boston, in una versione dei Celtics che, con Ray Allen e Paul Pierce, non può sostanzialmente perdere (e, infatti, non perderà), è molto diverso da quello ammirato fino a quel momento. Sul campo è sempre lo stesso che domina le partite a piacimento, come avrà modo di accorgersi Pau Gasol nell’ultimo atto delle Finals 2008: tuttavia, è come se il dover condividere con qualcuno la grandezza del trionfo ne limitasse la percezione che si ha di lui come giocatore e come uomo. Un dettaglio che sfugge a tanti, ma non a lui. Che, infatti, dopo qualche problema fisico di troppo, un’altra finale persa contro i Lakers e una dimenticabilissima parentesi ai Brooklyn Nets (nella quale indossa il numero 2, lo stesso di Malik Sealy), decide di tornare a casa.
Lui non è fatto per seguire, lui deve guidare. E i Minnesota Timberwolves del 2014/2015 sono una squadra giovane e di talento che ha bisogno di un leader vero. E pazienza se la solitudine è il prezzo da pagare per il compimento del proprio destino. Lo stesso che, tra l’altro, pochi mesi fa gli ha portato via anche Flip Saunders, colui che per primo diede a quel ragazzino uscito dal liceo la possibilità di misurarsi con i più grandi. Affidandogli, in quello che sarà probabilmente il suo ultimo anno, il compito di far capire ai Towns e ai Wiggins cosa voglia dire sudarsi ogni singolo minuto, di ogni singola partita, di ogni singola stagione disputata in questa lega.
Kevin Garnett è stato tanto ed è tante cose. Un giocatore irripetibile, una delle migliori ali grandi di sempre, un trash talker da competizione, financo l’atleta più pagato della storia Nba. Ma è stato anche, se non soprattutto, un uomo solo. Ed è stato questo il so più grande limite. Ed anche la sua più grande forza.