STORIE DELL'ALTRO BASKET - Kobe
Mi chiamo Kobe Bryant.
Ho debuttato in Nba prima ancora di diventare maggiorenne.
Passando da un qualunque liceo della Pennsylvania al Fabulous Forum di Inglewood.
E questo perché solo Jerry West credeva in me, più degli Hornets che mi avevano scelto con la 13 al Draft.
Le parole di Stern, quella notte, non mi fecero né caldo né freddo: ero lì dove avrei dovuto essere.
E non c’è da emozionarsi quando stai semplicemente facendo ciò che avevi previsto.
Ho passato le prime partite della mia carriera a lottare contro gli air ball e contro chi non credeva fossi pronto.
Appendendo i ritagli dei giornali che mi denigravano in palestra.
Perché alla sofferenza dell’allenamento si aggiungesse quella delle critiche.
Perché tutto questo mi sarebbe servito.
Ho cominciato a migliorare, a essere fin da subito quello che sono sempre stato.
Anche se a modo mio, anche se non mi interessava ricondurre tutto in una logica di gruppo.
Potevo farcela da solo. Shaq o non Shaq.
Poi è arrivato Phil. L’unico che mi abbia allenato per davvero nella mia carriera. Che ha capito come trarre profitto dalla mia ossessione. Che mi ha spiegato che come il triangolo aveva esaltato M.J. così poteva farlo anche con me. E gli ho creduto. Perché a uno come Phil non puoi non credere. Anche se è fatto a modo suo. Un po’ come me.
E quindi uno, poi due, poi tre titoli in fila. Il mondo mi apparteneva e credevo di non dover dividerlo con nessuno. Nemmeno con Shaq che una mano me l’aveva data. Quando se ne andò ne fui sollevato. Era la mia squadra, non la sua. Stavolta potevo farcela da solo.
O forse no. Perché quando non bastano un gennaio a oltre 40 di media, 62 in tre quarti contro i Mavs o 81 ai Raptors, allora a modo mio non è il modo giusto. Anche se, quella volta, con qualche tiro libero in più e qualche forzatura in meno i 100 di Wilt avrebbero tremato per davvero. Ancora oggi non riesco a darmi pace.
Sono tornato da Phil. Che se n’era andato e poi era tornato a sua volta. Gli ho fatto capire che dovevamo fare di nuovo come diceva lui. Che ero disposto a mettere da parte il mio ego. Che tutto ciò che mi interessava era la vittoria. Proprio come M.J.
Già M.J. Gli ho anche rovinato l’ultimo All Star Game. Ma la colpa è anche sua. Doveva aspettarselo. Sapeva che non gli avrei lasciato nulla, anche dopo quell’ultimo tiro che ho provato ad imitare tante volte. E’ stato lui ad insegnarmi che “no mercy is the way”. Quindi, può prendersela solo con se stesso per avermi insegnato così bene.
Tornare là dove ero stato e dove volevo tornare ad essere non è stato facile. Ho dovuto affrontare la più grande delusione della mia vita e trarne forza. Perché niente ti carica meglio nella offseason come il ricordo di trentamila bostoniani che ridono di te dopo averti asfaltato.
Per questo mi è dispiaciuto non ritrovarli l’anno dopo in finale. Volevo loro, non i Magic e nemmeno i Cavs di LeBron. Dovevano pagare.
E hanno pagato.
Con gli interessi.
A gara 7.
Quella che tante volte aveva fatto piangere Jerry West, l’uomo che aveva creduto in me.
Quella che mi ha dato l’anello più prezioso e brillante di tutti.
Poi Phil se n’è andato di nuovo.
Non nel modo che meritava.
Dopo un 4-0 contro i Mavs di quel tedescone che rispetto tanto.
E io mi sono sentito di nuovo da solo.
Contro la Lega.
Contro il mondo.
Contro tutto.
Anche contro i miei compagni.
Ma se Dwight Howard non lo vuole come lo voglio io allora è meglio che non intralci il mio cammino.
A costo di giocare con un minutaggio folle.
A costo di rompermi il tendine d’Achille.
A costo di tirare da infortunato due liberi inutili.
Per gli altri.
Non per me.
Perché bisogna dare l’esempio a chi non lo vuole quanto te.
Mi chiamo Kobe Bryant e dal 2013 ha lottato contro gli infortuni e Father Time.
L’unico avversario che non ho potuto depistare sul crossover.
L’unico ha continuato ad esigere il pagamento del suo tributo sera dopo sera.
L’unico che più l’ho sfidato più non ha indietreggiato.
Fino a diventare lui M.J. e io Bryon Russel a Salt Lake City.
Costringendomi alla resa.
Io che non mi sono arreso mai.
Ma non ha potuto negarmi un ultimo ballo.
Un ultimo atto d’amore.
Un’ultima stagione.
Che non è stata come avrei voluto.
Perché la mia squadra continua a perdere.
E noi non dovremmo perdere.
Noi siamo i Lakers.
Quelli che hanno dominato il mondo.
Non quelli che lo subiscono.
Ma non ho potuto oppormi a questo.
Così come non ho potuto oppormi a tutto quello che c’è stato intorno al mio addio.
Perché va bene gli omaggi di amici, compagni e avversari.
Ma non così.
Non come fossi già un ex.
Non come fossi già il passato.
Io sono Kobe Bryant.
Io sono il presente.
Nonostante il mio fisico non risponda più.
Nonostante ogni isolamento dal gomito mi costi sempre più fatica.
Nonostante partite da 1/10 al tiro che hanno mortificato prima me stesso e poi chi ha creduto, crede e crederà in me.
Mi chiamo Kobe Bryant.
E questa è la mia ultima partita.
Non conta niente.
Né per noi, né per loro.
Sembra solo l’ennesimo carrozzone.
L’ultimo.
Allestito per farmi piacere.
Per sancire la mia uscita di scena.
Come se importasse solo il prima e il dopo.
Quando, invece, per me contano solo quei maledetti 48 minuti.
Che ho giocato come ho giocato tutti gli altri 48 minuti della mia carriera.
Al massimo delle mie possibilità
Forzando.
Sbagliando tiri facili.
Segnando tiri impossibili.
Protestando con gli arbitri.
Arrabbiandomi con i miei compagni troppo morbidi in difesa.
Mettendone 60 quando tutti se ne aspettavano al massimo 20.
Oscurando quegli altri che, a 600 km di distanza, hanno fatto ciò che non era possibile fare.
Salutando alla mia maniera.
Non da ex.
Da giocatore vero.
Da campione.
Da leggenda.
Da erede di Michael.
Quello che ero. Quello che sono. Quello che sarò sempre.
Mi chiamo Kobe Bryant e questa è la mia storia.
E voglio ringraziare tutti voi.
Perché ne avete fatto parte.
E se non ci foste stati forse niente avrebbe avuto senso.
Queste parole sono frutto di fantasia e non attribuibili in alcun modo a Kobe Bryant