STORIE DELL'ALTRO BASKET -Il profondo mare di Tim Duncan
E’ un pomeriggio come tanti a Winston-Salem. Uno di quelli dove la tranquillità della ripetizione fa in modo che tutto resti uguale nel tempo. Che niente cambi, anche se tutto sembra cambiare.
Ma non quel pomeriggio del 1992. Quando al cospetto di coach Dave Odom, storico allenatore dell’università di Wake Forest, ricompare Chris King. Uno che se si trova a giocare professionista, lo deve principalmente a lui e che quasi lo costringe a partire per Saint Croix, Isole Vergini. Perché c’era qualcosa, anzi qualcuno, che doveva essere visto.
Difficile dire cosa passò nella mente del coach durante quel viaggio fuori programma. Chris King era un bravo ragazzo, un ottimo giocatore, un amico, ma era probabile che si stesse sbagliando. Una sensazione che lo accompagnò fin quando non posò gli occhi su ciò che il suo ex allievo desiderava che vedesse, uno che era stato in grado di tenere testa a Zo, inteso come Alonzo Mourning, in una partita (mica tanto) di esibizione. A quel punto coach Odom pensò davvero che avrebbe potuto essere lui l’uomo, prima ancora che l’allenatore, che avrebbe fatto conoscere al mondo quel ragazzo.
Questa storia, raccontata diffusamente da Bill Littlefield, spiega come, in effetti, di Tim Duncan l’America cestistica sapesse poco o nulla. E l’ultima sua apparizione, risalente a un paio d’anni prima a un camp dell’Ohio con/contro i migliori liceali del Paese, aveva lasciato a tutti la stesse impressioni che fanno titubare coach Odom: fisicamente ci siamo, sulla tecnica c’è da lavorare. Tanto. Forse troppo.
Ma non poteva essere altrimenti. Fosse dipeso da lui, Duncan avrebbe fatto il nuotatore. Con tutta una serie di record giovanili a dimostrare la bontà dell’assunto. A decidere, però, non fu lui. Ma il destino. Sotto forma di un brutto male che gli portò via la mamma allenatrice all’età di 14 anni e di ‘Hugo’, un uragano che spazzò via la piscina d’allenamento. L’unica in un’isoletta di poco più di duemila anime.
Dall’allenarsi in piscina in compagnia, a farlo da solo, in mare aperto e con gli squali in scia, il passo fu breve e, probabilmente, traumatico. E fu quasi inevitabile volgere lo sguardo a una delle poche cose risparmiate dalla furia di ‘Hugo’: un canestro, a suo tempo attaccato a un albero dal padre e sotto il quale Rick Lowery, marito della sorella e playmaker titolare per la Capital University di Columbus in gioventù, gli insegnò i primi rudimenti del Gioco. Che, evidentemente, tornarono utili quando fu il momento di giocare per la George Dunstan’s Episcopal School nel locale campionato liceale (si, esiste un campionato liceale delle Isole Vergini), ribaltando lo status quo. Letteralmente. Prima del suo arrivo il record di squadra era 0-12. Quell’anno fu 12-0.
Quindi l’invito al già menzionato camp in Ohio, il fallimento, il ritorno a casa, l’allenamento duro e silenzioso. E poi l’ 1vs1 improvvisato con un Alonzo Mourning prima divertito poi sinceramente preoccupato, in quello che avrebbe dovuto essere soltanto l’ennesimo atto di uno dei tanti tour promozionali dell’Nba in giro per gli Stati Uniti e che si sarebbe invece trasformato nell’occasione della vita. Di Tim Duncan e di coach Odom.
All’inizio della stagione 1993/1994, Tim Duncan è uno dei Deacons di Wake Forest University agli ordini di Odom. Il piano del coach è semplice: l’anno da freshman dovrà passarlo in palestra ad apprendere i fondamentali, per poi prendersi la squadra da sophomore. Anche stavolta, però, il destino ci mette lo zampino. Anzi, lo sgambetto. Quello che fa infortunare i due elementi cardine del reparto lunghi e che costringe il coach a buttare nella mischia quell’oblungo caraibico molto prima del previsto. Trentatré partite, 30.2 minuti, 9.8 punti e 9.6 rimbalzi di media, in una stagione che avrebbe dovuto vederlo soccombere contro gente che aveva lavorato tutta una vita per essere ad un livello che lui, invece, aveva già raggiunto.
E non avevano ancora visto niente. L’anno dopo i punti diventano 16.8, i rimbalzi 12.5 e le squadre Nba che lo implorano di dichiararsi eleggibile per il Draft molte di più. Sarebbe una scelta facile da prendere. Ma non per Tim Duncan da Saint Croix. Uno che le promesse le mantiene. Soprattutto a una madre che, alla vigilia dell’ultimo viaggio dell’esistenza, aveva chiesto solo una cosa: completare il percorso di studi. Magari in Psicologia. Magari alternando il tutto all’inclusione nell’ ACC First Team, alla vittoria all’unanimità del ‘John Wooden Award’, alla conquista del Trofeo ACC, alla riscrittura del libro dei record dell’Ateneo (20.8 punti, 14.7 rimbalzi, 3.2 assist nel suo anno senior, primo nella storia NCAA a superare i 1.500 punti, 1.000 rimbalzi, 400 stoppate e 200 assist).
Il tutto senza dimenticare di volgere lo sguardo verso il mare. Lo stesso mare che gli ha dato i natali. Lo stesso mare che, in una perfetta metafora della vita è stato è e sarà sempre pieno di squali. Lo stesso mare che sta osservando mentre aspetta di incontrare il suo nuovo allenatore. Si chiama Gregg Popovich e dicono sia un tipo particolare. A lui gli Spurs hanno affidato le future sorti della franchigia. E, per andare sul sicuro, con la prima scelta assoluta al Draft 1997 hanno chiamato proprio Tim Duncan.
Eccolo, Popovich. In perfetto orario. Non c’è bisogno di dirsi granché. Un cenno di saluto, uno sguardo prima a lui e poi al mare. Chissà quanto sarà profondo, adesso.
“Coach…”
“Tim…”