STORIE DELL'ALTRO BASKET - Il principe del Baltico. E non solo
Federico Buffa ha sempre raccontato di come Pete Maravich fosse stato facile profeta quando preannunciò l’arrivo dei lunghi passatori all-around. Almeno se questa profezia viene riletta secondo i canoni di oggi, con il sempre inutile senno del poi, e in un periodo storico in cui furoreggiano i LeBron James e i giocatori alla Gasol, sembra semplice.
Non era così, però, a quell’epoca, all’epoca di Maravich, quando la visione degli americani sul ‘loro’ gioco non era così avanti e soprattutto perchè quelle parole provenivano da un uomo che, nella fase declinante della carriera, aveva mostrato la sinistra tendenza a mantenere la dimensione mentale molto distante da quella corporea. Prendere quell’affermazione come la boutade di un uomo in evidente difficoltà fu quasi logico. Eppure non ci volle molto perché i fatti dessero ragione a ‘Pistol’.
Tutto comincia a concretizzarsi nel giugno del 1985 quando gli Atlanta Hawks, con la scelta numero 77 al draft, fanno conoscere al mondo americano il nome di Arvydas Sabonis. La scelta sarebbe stata invalidata a causa della violazione del parametro relativo all’età minima e il nostro sarebbe approdato in Nba solo dieci anni più tardi, ma questo rileva il giusto. Sabonis è un centro che, ad anni 21, gioca come mai prima (e come mai dopo) anche in un contesto che aveva visto fiorire il grande Tkachenko. Che ci si trovasse al cospetto del primo della nuova specie di superatleti predetta da Maravich era evidente: mani da liutaio al servizio di un fisico mostruoso (221 centimetri per più di 130 chili), piede perno sontuoso, tecnica da passatore misteriosa per un giocatore di quelle dimensioni, imbattibile a rimbalzo, affidabile con il piazzato dalla media-lunga distanza. Wilt Chamberlain vent’anni dopo. Vedere per credere.
Solo che ‘The Big Dipper’ un avversario come gli agenti del Kgb non l’aveva mai avuto. Sabonis sì, o almeno così dice la leggenda, in virtù del suo rivedibile status di ‘patrimonio’ del regime sovietico. Un patrimonio da proteggere, a modo loro: affidandolo alla custodia dei servizi segreti di Stato, perché non seguisse le orme del traditore tedesco Sparwasser (quello che ai Mondiali di calcio del 1974 segnò il gol decisivo contro la Germania Ovest) saltando al di là del muro di Berlino. Una marcatura che non poteva essere elusa o battuta con un elegante giro dorsale o un movimento dal post basso.
Negli anni Ottanta, nel vecchio continente, pallacanestro faceva rima (anche) con Arvydas Sabonis e Unione Sovietica, deuteragonisti ideali della Jugoslavia e di Drazen Petrovic. E’ di “Sabas” la firma in calce ai trionfi dell’armata rossa, con una maglia che però non sente “sua”: ori europei, mondiali e olimpici più una mezza dozzina di piazzamenti assortiti. Tutti sfruttati per provare a dare nuovo lustro all’immagine decadente del regime comunista che, almeno per ciò che riguarda la palla a spicchi, poteva contare sui talenti provenienti dalla Lituania.
Nel 1989, però, il muro di cui sopra, fisico e metaforico, cade e Sabonis diviene così un uomo libero. Libero di seguire, seppur in ritardo, la strada che il destino aveva tracciato per lui. Libero di andare in Spagna a dilettare, novello torero, le folle di Valladolid prima e Madrid poi. Libero di vincere a Barcellona ’92 un bronzo dal valore inestimabile, perché conquistato con la SUA nazionale, quella vera, non quella impostagli da altri. Libero, finalmente, di attraversare l’oceano e approdare lì dove, di fatto, avrebbe sempre dovuto stare.
L’impatto con la ‘sua’ lega, con la maglia dei Portland Trail Blazers, che lo avevano draftato nel 1986, è ancora oggi libero oggetto di interpretazione. Ottimo se si guarda all’ancora scarsa considerazione che si aveva degli europei (nonostante Bobby Knight, uno che non regalava niente ha nessuno, avesse sentenziato anni prima: “Io uno così non l’ho visto mai”), poco più che discreto per chi, al di qua dell’Atlantico, aveva ancora negli occhi il dominio esercitato sui parquet del vecchio continente. Di fatto i 14.5 punti, gli 8.1 rimbalzi e gli 1.8 assist in poco più di 24 minuti di media a partita, costituiscono un trampolino di lancio di tutto rispetto. E, finalmente, Pete Maravich ottiene la sua rivincita dal luogo in cui riposa degnamente.
Anche al cospetto di chi aveva inventato il gioco il dilemma è sempre lo stesso. Ci si trova di fronte a qualcosa che non ci credeva fosse possibile. Per un europeo e per un uomo di quelle dimensioni. Gli americani avevano ancora negli occhi ciò di cui era capace Drazen Petrovic; ma quello era un croato di 1 e 96, questo è un monolite di 2 e 20. Non si capisce come abbia imparato a giocare in questo modo, più e meglio di tanti altri abituati a quei livelli. Come se ci fossero delle voci interiori a guidarlo in un mondo solo all’apparenza sconosciuto, come se avesse sempre saputo cosa fare, come fare e contro chi farlo. Un iniziato, senza possibilità di smentita. Al netto di problemi fisici alle ginocchia che si fanno cronici con il passare dell’età e di qualche ‘prodezza’ extra campo dovuta all’altra sua grande passione, la vodka.
Nelle sue sei stagioni a Portland (sette volendo considerare il 2002/2003 che funge da intermezzo alla sua seconda e ultima parentesi allo Zalgiris), i Blazers si affermano come una delle squadre più competitive ad Ovest. Fermandosi, però, sempre alle soglie del paradiso, con gli Spurs (1999) prima e i Lakers della prima ondata Kobe-Shaq (2000) poi nel ruolo del cattivo che interrompe alle finali di Conference la scalata verso la gloria.
Il ritorno a casa, nel 2001/2002 sembra il preludio a un inesorabile declinare. Ma, anche in questo caso, l’uso del condizionale non è casuale visto che il nostro fa ancora in tempo, alla soglia dei 40 anni, a farsi nominare miglior giocatore dell’intera Eurolega nel 2004 oltre a vincere un altro paio di titoli con lo Zalgiris. Prima che, inevitabilmente, Chrono chieda il tributo definitivo a una carriera difficilmente eguagliabile, imponendo il ritiro nel 2005.
Eppure, nonostante tutto, Saba è ancora lì. E’ lì quando vedete un Marc Gasol dare una palla schiacciata per terra non spiegabile dalle menti normali. E’ lì quando Nowitzki spariglia ogni piano difensivo preparato contro di lui grazie ad una tecnica di tiro non comune a un lungo di oltre due metri e dieci. E’ lì quando, nei college di mezza America, ai centri viene prima insegnato a muoversi correttamente sul piede perno prima ancora di far valere il loro selvaggio atletismo. E’ ancora lì perchè di fatto non se ne è mai andato. Lui che, sui parquet Nba, è sempre stato di casa pur essendo nato e cresciuto in un contesto (non solo cestistico) totalmente diverso da quello cui lui apparteneva naturalmente. Lui che, per farsi guidare nel cammino di un’esistenza non sempre facile, ha scelto di seguire le sue voci di dentro. Che, visti i risultati, hanno avuto ragione fin dall’inizio.