STORIE DELL'ALTRO BASKET - I volti e i nomi di Ron Artest
Nel suo meraviglioso monologo sui supereroi in Kill Bill vol. 2 Bill – a.k.a. David Carradine – dice che, a differenza di tutti gli altri, Superman “è nato Superman”, che l’alias del mite Clark Kent “è il costume per mimetizzarsi tra noi” e “rappresenta la critica di Superman alla razza umana”. Allo stesso modo si potrebbe arrivare a pensare che il cambio (o i cambi) di nome di Ron Artest non siano altro che una sua personale forma di critica al conformismo degli altri bipedi che non sono propriamente alla stessa pagina del libro. Non perché Artestsia un supereroe: anzi, è l’epitome del “villain” per eccellenza. Ma, trattandosi appunto di Ron Artest, classe ’79 del Queens, si tratta una premessa indispensabile per aiutare a comprendere il personaggio. Che, nel corso di una vita che sembra ispirata ai precetti del rodmanismo (ma quello ha alzato, e di molto, l’asticella), ha cercato di mascherare il suo essere attraverso frequentazioni con l’anagrafe statunitense che meriterebbero un approfondimento a parte.
Tuttavia, e qui chiudiamo con le citazioni d’autore – dell’Avvocato, e chi sennò -, “puoi anche importi un nome pali che richiama la pace del mondo, in quel corpo c’è sempre Ron Artest ragazzi”. Il quale, come il Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria in Uno, nessuno e centomila, ha capito che per uscire dai limiti che la vita impone basta cambiare nome. In un’esistenza in una continua evoluzione, il nome rappresenta la morte; quindi, l’unico modo per vivere davvero e pienamente ogni attimo su questo blocco minerale orbitante intorno al sole, è rinascere ogni volta in qualcosa di diverso. E solo Ron Artest è stato uno, nessuno e centomila uomini diversi.
E’ stato, dopo la classica infanzia difficile (nel caso di specie, un po’ più difficile delle altre), un ottimo giocatore di college a St. John’s University, con le Final Four nella stagione da sophomore – a quasi 15 punti di media – sfiorate d’un soffio nella mattanza delle “March Madness”. E’ stato la sedicesima scelta dei Bulls l’anno successivo al secondo ritiro di Jordan; e, se la cosa vi fa ridere adesso, immaginate all’epoca.
E’ stato, poco dopo aver terminato la sua migliore stagione in maglia Pacers (18,3 punti, 5,7 rimbalzi e 3,7 assist di media nel 2003/2004), il protagonista, con quell’altro bel tipino di Ben Wallace, della più grande rissa registrata all’interno di un palazzetto Nba. Non serve certo il sottoscritto per ricordare ciò che accadde al Palace of Auburn Hills di Detroit il 19 novembre 2004: quello è, come si suol dire, storia. Così come la squalifica record di 73 partite.
E’ stato, lui che per usare una metafora meravigliosamente americana “conosce tutte le linee aeree da New York a Los Angeles”, giocatore dei Sacramento Kings. In campo pochino, se si esclude la notte in cui, da solo, stese tre suoi compagni nel “chest pump” con cui era solito caricarsi nel riscaldamento. Memorabile.
E’ stato, dopo una più che discreta parentesi ai Rockets, campione Nba. Nell’anno di (relativa) grazia 2009/2010, in maglia Lakers, al termine di 7 sanguinose battaglie con i Boston Celtics. Il fatto che Ron Ron avesse, praticamente, fatto una sorta di auto-reclutamento, fingendo di perdere il passaporto solo per avere una scusa per recarsi a LA a proporsi ai gialloviola, aggiunge lustro a leggenda. Come dite? I rapporti con Kobe? Variabili a seconda delle lune di entrambi, ma già il fatto che fosse uno dei pochi iniziati a non essere sottoposto alle celebri “interrogazioni” del Black Mamba (toh, ancora “Kill Bill”) in allenamento, la dice lunga. Lunghissima.
E’ stato, come ampiamente accennato, Metta World Peace, per rinascere a nuova vita nella stagione 2010/2011. E cosa c’è di meglio, per portare la pace nel mondo, di una bella gomitata, 3 cm sotto il lobo temporale, di James Harden?. Ancora oggi si discute se, più che le 7 giornate di squalifica, non fosse il caso di fissare una data per la prima udienza penale. Qualche alto, parecchi bassi e una clausola “amnesty” dopo, arriva l’annuale con i Knicks.
Ma siamo già in fase calante, quella in cui si rende necessaria una nuova rinascita. Che parte dalla Cina, dai Sichuan Blue Whales e dal rivedibilissimo “Panda’s Friend”: anticipato, peraltro, da un paio di scarpe con tanto di peluche evocativo sfoggiate in partita.
E adesso non resta che aspettare. Il prossimo capitolo dell’Artestiade, certo, ma anche il “prossimo” Ron Artest. Che, nel perseguimento della sua personalissima frantumazione dell’io, continua a nascondere il suo essere in altre centomila immagini diverse ma uguali, fatalmente incapaci di staccarsi dall’originale. Perché Ron Artest è e sarà sempre solo uno. Quello vero. Pur essendo stato nessuno e pur cercando di essere altri centomila.