Saranno famosi (?): lo strano caso dei Minnesota Timberwolves
Ci sono le ultime tre prime scelte al draft, il Rookie of the Year 2015, il vincitore dell’ultimo Slam Dunk Contest, il playmaker europeo più americano che ci sia e una serie di simpatici e talentuosi scappati di casa. No, non è il principio di una pessima barzelletta di quart’ordine causata dei nefasti effetti del gran caldo. Semplicemente è il roster dei Minnesota Timberwolves così come si presenta alla metà di luglio:
Quindi ancora suscettibile di trades, variazioni, sconvolgimenti e chi più ne ha più ne metta. La sensazione, però, è che il progetto che hanno messo su a Minneapolis negli ultimi anni, al grido di “tankare e tankeremo!”, sta finalmente inziando a prendere forma.
Chiariamo. Non esiste una precisa ragione tecnica per la quale i T-Wolves siano stati mediamente rivedibili nel corso delle passate stagioni. Si è trattato di un percorso scientificamente tracciato per arrivare a quella che, in gergo, potrebbe definirsi una squadra ‘futuribile’. Talento più giovane età più spregiudicatezza più un Garnett qua e la a spiegare ai ragazzini come si sta al mondo. Sulla carta niente di più adatto al contesto Nba, dove la parola chiave è ‘programmazione’. Ma è davvero questo il caso?
Partiamo da Ricky Rubio, il quarto segreto di Fatima. Ma anche il quinto, sesto, settimo e così via. Perché non si è ancora capito se l’eterno ragazzo da El Masnou sia davvero il “Michael Jackson applicato al basket” di buffiana memoria, o l’indolente numero 9 che si trascina caracollante per i parquet di mezza America. Con l’aggravante di una sinistra tendenza agli infortuni più gravi. Eppure il fascino di certe sue giocate ti spinge sempre a dargli un’altra occasione, a covare la segreta speranza che prima o poi diventi quel che dovrebbe essere già da un po’. Vale a dire il fantasmagorico anello di congiunzione tra il playmaking all’europea e quello all’americana. Ma il credito verso intenditori e presunti tali non è infinito, anzi. Quindi, soprattutto se il tuo cambio è Terrence Jones, meglio darsi una mossa.
Che è un po’ quello che dovrebbero fare Zach LaVine e, in misura maggiore, il suo naturale omologo Kevin Martin. Ma se per il primo c’è la giovane età che gioca ancora a favore, il secondo non ha poi molto tempo per affrancarsi dalla non apprezzabile fama di ‘mangiapalloni’ che si porta dietro dai tempi di Sacramento. Il talento c’è sempre stato e non è (?) oggetto di discussione. C’è da fare il passo successivo, adeguarsi a un contesto di squadra che esuli dal prendersi venti tiri a partita. Ad anni 33, non è così scontato. Nel caso, auguri.
Su Wiggins, invece, c’è la tendenza a fidarsi, non foss’altro per aver dimostrato la testa giusta anche nei momenti in cui l'(auto) esaltazione avrebbe potuto legittimamente prendere il sopravvento. Il ROY è solo il riconoscimento a qualità innate che, se debitamente affinate, potrebbero portare il nostro a scrivere diverse e on trascurabili pagine nella storia di questo sport che ci fa impazzire. Un po’ l’idea meravigliosa che si è messo in testa Karl-Anthony Towns: benissimo in NCAA, bene alle Summer League, da testare accuratamente quando si comincerà a fare sul serio. Con l’avvertenza che imboccare l’autostrada in direzione Kwame Brown è un attimo; per informazioni chiedere a Anthony Bennett.
KG, a quelle latitudini, non si discute nemmeno, tanto più se la parte che è chiamato a recitare è quello di vecchio e saggio mentore, promotore del Wolves Proud. Pekovic, invece, è il discutibile per eccellenza, soprattutto per quel ruolo da 4 che Flip Saunders vorrebbe cucirgli addosso e che, invece, sarebbe più consono a qualcuno con più atletismo e meno anni sulle spalle. Che sarebbe l’identikit di Nemanja Bjelica il cui impatto oltreoceano è, però, ancora un grosso punto interrogativo.
Completano il quadretto gente come Dieng, Muhammad e Payne che dopo una stagione vissuta pericolosamente nel limbo del ‘sommerso Nba’ hanno bisogno di spazio e minuti per dimostrare quel che valgono. E non è detto che ciò di cui hanno bisogno sia necessariamente in Minnesota.
Cosa resta, quindi, alla fine della fiera? Un roster di tutto rispetto che, se non ci trovassimo nel Wild Wild West dove persino una Sacramento con Cousins e Rondo rischia di vedere i playoff con il binocolo, potrebbe tranquillamente dire la sua anche da aprile in poi. Ma non essendo questo uno sport avvezzo ai ‘se’ e ai ‘ma’, ciò cui realisticamente si può puntare è una stagione dignitosa, magari scavallando quota 500 nel rapporto vittorie/sconfitte.
A meno che non si decida nuovamente di sbracare senza ritegno, pensando a nuove prime scelte e al futuro. Peccato che, alle volte, il futuro sia già adesso. E un discreto concentrato di talento come questo non merita un così terribile spreco.