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My Way

Il 30 dicembre del 1968 Francis Albert Sinatra, più conosciuto come Frank, incideva My Way, uno dei singoli più famosi della sua carriera, negli studi della Reprise ad Hollywood. Esattamente 16 anni dopo, nel 1984, sul versante opposto degli Stati Uniti d’America, nasceva all’Akron General Medical Center LeBron Raymone James.

Credere alle coincidenze, alle casualità non sempre aiuta a capire e la quasi ossessione con la quale cerchiamo nessi causali tra due eventi, due avvenimenti, due episodi rispecchia perfettamente il nostro modo di vedere le cose. Il fatto che The Voice cantasse versi come “Ho vissuto una vita piena, ho viaggiato su tutte le strade ma più, molto più di questo, l’ho fatto alla mia maniera. Ho amato, ho riso e pianto, ho avuto le mie soddisfazioni, la mia dose di sconfitte ma ho fatto tutto alla mia maniera” non rappresenta una banalità. Il fatto che Sinatra, altro personaggio assai controverso, indichi una strada ben definita da seguire non è una coincidenza. Così come non è una coincidenza il fatto che 16 anni dopo nasca un ragazzo che ha messo in pratica quei versi, che ha combattuto per qualcosa che non tutti i ragazzi, specie se di quella zona dell’America, possono avere, ovvero sia realizzare il proprio sogno. Il sogno lo ha interpretato a modo suo. Ha riscritto la storia del Gioco, ha ridisegnato il concetto di pallacanestro, ha attirato su di sé una pressione sconosciuta anche ai più importanti innovatori dello sport. Tutto poggiato su quelle spalle grosse, a tratti enormi, sulle quali spicca il suo soprannome naturale: The Chosen One, il Prescelto. Le scelte, i media, le risposte, gli atteggiamenti, la leadership, le responsabilità, le colpe. Tutto poggiato su quell’enorme fardello che sfoggia con chiarezza da quando mamma Gloria lo ha messo al mondo. Si può criticare ogni cosa di James, ogni singola azione, il suo modo di vedere la pallacanestro, i suoi isolamenti, la sua meccanica poco fluida, il fatto che – nonostante le qualità – abbia vinto relativamente poco. Ciò che invece non si può, e questa volta non ci permettiamo di dire che non si deve, fare è dubitare di un giocatore nato come arma totale, un’androide (come lo definisce più volte l’avvocato Buffa) che ha impattato con il mondo in maniera cruda e affascinante allo stesso tempo. La grandezza di un essere unico non si può discutere, odiare o mettere in discussione, specie se allarghiamo i confini del nostro discorso ad ambiti extra cestistici. Il problema “Haters” è estremamente relativo: fanno parte del gioco, fanno parte della vita e fanno parte di quella parte dell’inconscio che riesce a trasformarli in pura motivazione. Lo schierarsi dalla parte di chi “odia” cestisticamente un giocatore ha sempre fatto parte di questo sport: anche leggende come Jordan, Bryant, Chamberlain, Shaq, Bird, Magic hanno avuto vaste porzioni di persone che non si sono mai allineate alla loro visione del Gioco. Eppure hanno scritto la storia, hanno cambiato l’universo cestistico di gran parte degli appassionati, proprio come ha fatto LeBron James. La discussione sul suo talento, sul suo gioco, sul suo essere leader e su tantissime altre cose che lo circondano sarà eterna e non si arriverà mai ad una risposta definita. Quello che possiamo, vogliamo e dobbiamo fare è ringraziare mamma Gloria per aver dato al mondo intero un essere straordinario come LeBron James. C’è chi si ostina a non credere alla realtà, chi si rifiuta di essere testimone della storia e allora in quel caso non ci resta altro da fare che ribadire il discorso fatto dall’MVP delle Finals 2013: “Non posso preoccuparmi di quello che la gente dice di me.Io sono LeBron James, vengo da Akron, Ohio, from the inner city. Ogni sera vado nello spogliatoio, vedo la maglietta numero 6 e penso di essere benedetto. Quello che dicono gli altri non ha importanza“.

Questo è LeBron, questo è il suo modo. Questa è l’opinione di un uomo che non ha più bisogno di dimostrare di appartenere a quell’Olimpo di Dei che già lo aspettano per incoronarlo. Il viaggio per la sua personale idea di #StriveForGreatness è ancora lunghissimo ma solo chi è stato sempre fedele al Re sarà sempre grato per quanto ha dato a questo meraviglioso Gioco. Grazie e tanti auguri. Sempre on my way.

About The Author

Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone