MARCO CALVANI - "Vi racconto il mio Datome. E agli americani dico: apritevi agli europei"
Il basket NBA comincia a parlare più italiano, adesso. Gigi Datome è finalmente riuscito ad affermarsi in campo. E anche fuori. Ma c’era bisogno di una voce sicuramente più autorevole della nostra per raccontare questo percorso di crescita e non solo. Partendo da Datome, il discorso diventa inevitabilmente più ampio. La scelta non poteva ricadere che su Marco Calvani, che lo ha allenato a Roma nell’anno magico della Virtus, attualmente tecnico della Givova Flor do Café Napoli.
Coach, innanzitutto cosa le è rimasto del Datome di Roma?
Tutti ottimi ricordi. Dedizione e applicazione, volontà e moralità, ma soprattutto tanto attaccamento per questo sport. Si percepiva la sua voglia di fare bene e come non fosse motivato dai soldi o da qualsiasi altra gratificazione materiale. E’ il giocatore che tutti gli allenatori vorrebbero in squadra, è trainante.
Siete rimasti in contatto?
Sì, ci mandiamo spesso messaggi su Whatsapp, mi fa piacere fargli sapere che lo seguo anche in NBA.
Trova che questi primi tre anni in America l’abbiano cambiato?
Direi di sì, anche perché era inevitabile. Basti pensare che il ruolo che ricopre in squadra adesso è totalmente diverso. A Roma era il leader del gruppo e dovevamo molto a lui, il suo apporto finiva sempre con l’essere determinante. Con i Pistons, invece, è entrato in squadra con un ruolo marginale in un mondo del tutto nuovo. Ma ha saputo aspettare l’occasione giusta senza smettere mai di allenarsi. E’ stato bravo a non mollare; poi, è intervenuta la fortuna: la trade che l’ha mandato a Boston all’ultimo giorno disponibile è stata una benedizione.
Si è mai chiesto perché non gli avessero dato spazio a Detroit?
Certo, ma non ho saputo trovare una spiegazione. Sicuramente non era colpa di Gigi: per come lo conosco e per come lo stanno conoscendo adesso gli altri in America, le responsabilità sono tutte dello staff tecnico di Detroit. Van Gundy deve essersi fatto condizionare da gerarchie preesistenti all’interno del gruppo.
E adesso Boston è la squadra giusta? Magari dando uno sguardo anche oltre la stagione corrente.
Al momento lo è, perché sta dando a Gigi una grande opportunità di mettersi in mostra. E’ entrato nel cuore dei tifosi che gli dedicano i cori e ho notato che ha fatto breccia anche nei media. Siamo passati da “Datome who?” a “Gigi”, perché sanno che vuole essere chiamato così e non Luigi. Insomma, adesso non è più un oggetto misterioso, ma una piacevole scoperta. Per il futuro il discorso è diverso, subentrano delle dinamiche contrattuali e di monte stipendi che non conosco a fondo. Ma è certo che ora non è la squadra che conta, bensì lo spazio che gli danno.
L’inserimento degli italiani in NBA è sempre difficoltoso e pieno di ostacoli. Non pensa che tanto sia dovuto a come ci guardano gli americani? Spagnoli e francesi, ad esempio, non hanno questi problemi, anzi.
In realtà, penso che sia molto una questione d’immagine del giocatore-tipo. I francesi sono quasi tutti di carnagione scura e non è un caso che siano tutti ben inseriti, perché in qualche modo il giocatore afroamericano, anche per caratteri genetici, è il prototipo del cestista NBA. Inizialmente, eravamo visti con distacco, volevano insegnarci la pallacanestro. Ricordo il McDonald’s Open con la Scavolini Pesaro che fece una gran bella figura con i Knicks (nel 1990, finì 115-119 d.t.s. per gli americani, ndr). Nei tempi più recenti, da quando Bargnani si è imposto come prima scelta assoluta al draft, hanno cambiato modo di relazionarsi a noi: adesso ci guardano con curiosità. Da lì, il percorso è stato in discesa. Belinelli ha raccolto successi, come squadra ma anche come singolo quando ha vinto la gara del tiro da tre, mentre Gallinari sta prendendo in mano i Nuggets. E ora c’è anche Gigi. Quattro italiani in NBA li merita il nostro basket.
Già, sono i nostri “Fantastici 4”. Quelli che dovranno guidare la Nazionale al prossimo Europeo.
Ovviamente, il loro apporto sarà determinante e differente rispetto al resto della squadra. Dopotutto, non è un caso se sono stati selezionati per giocare in America. Ma il loro compito va oltre le giocate sul parquet. Devono usare la loro esperienza per essere una guida per gli altri e trovare la coesione necessaria per essere competitivi. Pronostici non ne voglio fare, perché non ne vedo l’utilità, vista la facilità con cui vengono ribaltati. Però, c’è da dire che Pianigiani sta facendo un grande lavoro e i risultati si vedranno a breve. Chissà che non sia proprio l’Europeo l’occasione per tornare ai fasti di un tempo.
Kobe Bryant ha detto che gli europei in un prossimo futuro colonizzeranno l’NBA, perché i giovani americani vengono preparati più sull’aspetto atletico che su quello tecnico del gioco. Lei ne ha visti tanti di giocatori giovani, europei e americani appena usciti dai college. Vede dei riscontri in questa affermazione?
In America i giovani sono molto più esplosivi, ma giocatori tecnici non mancano di certo. L’affermazione di Kobe è forte, anche perché lui è un’icona di questo sport. Spero che queste parole siano state ascoltate da chi di dovere, così che allenatori europei, specialmente gli italiani, possano dare un contributo più significativo nell’NBA, magari partendo anche dal basket universitario. Un processo che tutto sommato è già iniziato e che prosegue alla grande, con il nostro Ettore (Messina, ndr) sulla panchina degli Spurs e con vecchie conoscenze della Serie A come Larranaga a Boston e Penberthy a Minnesota.