Lunga vita ai Boston Celtics
A raccontarla quattro anni fa, una storia così, avrebbero riso tutti. Non solo a Boston, dove le risate non sono mai troppe, ma in tutto il Paese.
Si era chiusa un’epoca: i Celtics vincenti avevano chiuso i battenti, troppo sbagliato puntare ulteriormente su un gruppo logoro, ma ad innamorarsi di sé stessi può accadere anche di peggio.
Le teste dei tifosi erano ancora piene di immagini non troppo datate: il titolo del 2018, le Finals del 2010 perse all’ultimo respiro. “Possiamo ancora dare qualcosa, inseguire un altro anello”. Ci avevano pensato tutti, tifosi e giocatori.
L’ago della bilancia ha però avuto un nome e cognome preciso: Ray Allen, che da Seattle era arrivato nel 2008 per far parte di una squadra che avrebbe poi vinto il titolo, aveva già cambiato aria per andare a Miami (dove di anelli ne avrebbe vinti ancora). Fu il colpo finale per Boston che, dopo la sconfitta al primo turno dei Playoffs 2013 con i Knicks aveva capito di dover cambiare qualcosa.
RIVOLUZIONE BIANCOVERDE
Si riparte da capo, allora. Via tutti, perché l’anello è troppo lontano e perché i Celtics devono guardare al futuro. Danny Ainge non ci mette troppo a guardare più in là del suo stesso naso e aveva capito che quel gruppo capeggiato da Doc Rivers aveva ormai fatto tutta la strada possibile.
Rivoluzione, si dice in gergo, ma mai come quella volta a Boston: mandare via Pierce e Garnett può spezzare i cuori, ed è successo anche ai biancoverdi. Rondo, piacevole scoperta di qualche anno prima, doveva essere invece la prima pietra di quei nuovi Celtics.
Unico errore di Ainge, perché Rajon sarà il freno più importante alla crescita del nuovo gruppo.
Per ripartire, però, serviva una nuova guida: quanti allenatori vorrebbero la panchina del Garden? Forse tutti. Ma la scelta non è mai facile.
“Quello…no. Questo…no. Hey, guarda un po’ qui”. Apripista, anche stavolta, perché la scelta dell’estate del 2013 aprì ad un nuovo ciclo anche delle gestioni in NBA.
Si chiama Brad Stevens, viene dal College (Butler) e al piano superiore nessuno l’ha mai visto.
“Chi?”, si chiesero in molti, andando a spulciare le gesta del ragazzino sbarbato che si ritrovavano davanti. L’eco della scelta fu enorme, perché dall’altra parte del paese i rivali storici dei Lakers ancora si arrabattavano cercando di tirare su quanto meglio si potesse.
E invece non poteva esserci scelta migliore: Stevens ha avuto sin dal primo momento le chiavi del mondo Celtics, la fiducia della franchigia anche nei momenti peggiori, ed è ripartito alla grande come nei migliori ambienti americani, con meritocrazia.
Il primo anno fu un mezzo disastro, 12° posto ad Est e niente Playoff. Ma le basi erano state gettate con Rondo a fungere da fulcro dell’intero gruppo.
L’anno seguente, la svolta: in avvio Boston pareva la stessa squadra vista nella stagione precedente, ma a metà anno nuovi innesti cominciarono a fare la differenza. E tra una barba di Datome e l’altra spuntò il volto di Isaiah Thomas. Segnatevi il nome, perché quando un anno dopo Rondo saluterà, diventerà il simbolo di un’intera franchigia.
Alla fine fu 7a posizione ad Est e sconfitta secca al primo turno: 0-4 coi Cavaliers. Nessun dramma. Il lavoro prosegue in un’estate rovente, Stevens aggiunge tasselli importanti alla squadra e giocatori come Smart, Bradley, Amir Johnson diventano pedine preziose.
L’unico scossone arriva dal mercato: l’ultimo volto noto del titolo 2008 non c’è più.
Ciao, Rajon.
UN UOMO CHIAMATO ISAIAH
Nel 2015-16, però, Boston comincia a mostrare quello che sa fare. E a trascinarla gara per gara ci pensa un ragazzino che al College con la maglia di Washington aveva anche fatto benino.
Isaiah Thomas ha un nome impegnativo per la Lega che frequenta, ma neanche se ne importa. È arrivato in NBA nel 2011 con l’ultimo treno: Sacramento lo sceglie con la chiamata 60. Quel giorno giurò che avrebbe sconvolto la Lega con il lavoro, l’etica, la sua qualità. Ed un cuore ben più grande di un fisico che non fa impazzire.
L’arrivo a Boston, via Phoenix, non fece festeggiare la piazza. Oggi ogni bostoniano tifoso Celtics ha un santino di Isaiah sul comodino, in macchina, nel portafogli.
Il suo maggior pregio? Essere migliorato insieme alla squadra, essere migliorato per la squadra. Nella prima metà di stagione biancoverde chiuse con 21 gare giocate ed una media di 19 punti. Media che si alza fino ai 22 della scorsa stagione, chiusa da quinti con una bruciante sconfitta al primo turno. Atlanta è attrezzata bene e il 4-2 finale degli Hawks fa male anche a Stevens, che un po’ ci sperava di poter arrivare fino in fondo. I suoi Celtics avevano le caratteristiche da lui richieste: cuore immenso e difesa pura, tutti ad aiutarsi a combattere su ogni pallone.
Poco male, perché la scorsa estate Boston ha aggiunto al pacchetto ragazzi come Gerald Green, Jaylen Brown, soprattutto Al Horford, uno dei free agent più richiesti.
Quanto accaduto è sotto gli occhi di tutti: Boston finirà prima con 53 vittorie, a due gare di distanza da Cleveland e LeBron, battuti in stagione.
Isaiah ha chiuso con 28.9 punti di media, 5.9 assist e 2.7 rimbalzi.
Una scalata incredibile che adesso fa anche ben sperare ogni tifoso per i Playoff.
Si partirà nella notte italiana tra domenica e lunedi al Garden. Avversario i Chicago Bulls.
Da un lato Thomas e dall’altro? Proprio quel Rondo che gli ha lasciato Boston tra le mani.
“Hey, Rajon. Ci rivediamo”.