LOS ANGELES LAKERS - Nostalgia canaglia e quel che poteva essere e non è stato
Diciamoci la verità: non è un certo un bel periodo per essere un Laker. La congiunzione storica non è certo favorevole (eufemismo) e il futuro è ancora un limbo nebbioso nel quale navigare a vista, oltre che pericoloso, è anche l’unica soluzione disponibile. E, diversamente dall’anno scorso, non ci si può nemmeno consolare con le disgrazie degli avversari storici: perché i Celtics, al netto di margini di crescita esponenzialmente migliori, almeno a questo giro i playoff li hanno fatti. E con grande dignità. Parola che gli abituali frequentatori dello Staples in gialloviola hanno orami dimenticato, in barba ai gonfaloni là in alto che ricordano che, anche in tempi recenti, qualche pagina della storia di questo gioco è stata scritta proprio da quelle parti.
Non restano, quindi, che i ricordi di quando tutto andava come doveva andare. Con i Clippers che facevano i Clippers, quando le Finals erano l’obiettivo minimo stagionale, con le frasi per ogni occasione del ‘maestro zen’, con il ‘Wild Wild West’ che era tale perché chi voleva l’anello doveva necessariamente passare da L.A. Ma i ricordi, per quanto belli, hanno una fastidiosa controindicazione: tendono ad affievolirsi con il passare del tempo, cancellati da un presente che non fa onore al passato. Almeno fino a quando, QUALCUNO, non decide di dare una spolverata alla gloria di quei gonfaloni. Con questa:
“Devo ammetterlo. Stavamo bene insieme”. E certo, Shaq. Per te è facile. Ma hai una vaga idea del colpo al cuore che hai dato a noi che sanguiniamo il gialloviola? Qualcosa di tremendo, te lo assicuro. Perché ci siamo ritrovati a fare i conti con una realtà diversa, diametralmente opposta, nonostante siano passati poco più di 10 anni. E, soprattutto, perché hai risvegliato la sensazione più spiacevole di tutte: quella del ‘ciò che poteva essere e non stato’.
Va bene, il Three Peat e quelle stagioni in cui, praticamente, non si poteva perdere. Ma anche l’implosione di Detroit e il disfacimento di una delle più grandi coppie della storia dello sport, al termine di un logorante ed inspiegabile processo di logoramento dei rapporti. Non ho mai compreso fino in fondo cosa sia accaduto. So solo che, di punto in bianco, avevate deciso che bastava così, ognuno per la sua strada, perché bisognava dimostrare alla Lega e al mondo che potevate farcela anche da soli, che Shaq non aveva bisogno di Kobe e viceversa. Sono arrivati, per entrambi, altra gloria e altri titoli; ma senza quel retrogusto di dominio assoluto che dava tutto un altro sapore al Larry O’Brien.
Potevano essere molti di più, Shaq: poteva essere una dinastia, come quella dei Celtics di Bill Russel o forse di più. E invece no, tutto sacrificato sull’altare dell’egoismo, delle differenze inconciliabili, della debordante personalità di due superstar tra le superstar. Quel che è venuto dopo è stato più doloroso del progressivo declinare dei Lakers, al netto del Back to Back 2009-2010: un continuo punzecchiarsi, inseguirsi nel modo sbagliato, fare a gara a chi aveva vinto cosa, a chi aveva perso cosa. Dimenticando che niente avrebbe avuto più importanza se solo ciascuno dei due fosse riuscito a fare un passo indietro ma avanti verso l’altro, dimostrando che si può vincere coniugando l’ossessivo assoluto di Bryant e l’atteggiamento guascone di O’Neal. Come, del resto, era già successo con Phil Jackson perfetto ago della bilancia. Bisognava solo proseguire su quella strada, su quella Stairway to Heaven che avrebbe aperto le porte della gloria definitiva. Ciò che spettava a una squadra irripetuta e irripetibile.
Evidentemente quel ‘solo’ è stato il più insormontabile degli ostacoli, il più imbattibile degli avversari in campo. Per i quali, quando non bastavano Kobe e Shaq, potevi sempre contare su ‘Big Shot Rob’:
Già, Robert Horry. Ci si è messo anche lui, dopo Shaq, a velare di malinconia un pomeriggio solo apparentemente uguale agli altri. Le sue righe su The Player’s tribune dicono tanto, se non tutto, del formidabile giocatore che è stato. Un gregario solo nominalmente, primus inter pares in un contesto di eccellenze assolute. Lui, in quella squadra, ci stava benissimo. Faceva sempre la cosa giusta, come Derek Fisher, ‘il venerabile maestro’, un altro che non se la passa benissimo ultimamente.
E sentirgli dire che la dirigenza non era stata onesta fino in fondo con lui, che fu rilasciato nell’ultimo giorno di contratto, è stato un colpo al cuore ulteriore. Come e più della foto postata da Shaq sui social network. Forse è da lì che è cominciato ad andare tutto a rotoli, che il mondo ha preso a girare alla rovescia.
Eppure, ricordando tutto questo, alla fine non posso fare a meno di sorridere. Perché so che i Lakers torneranno questi. Con interpreti diversi, ovvio. Ma la gloria passata, anche se breve, un uomo la porta sempre con se. E la storia è lunga e lastricata di gloria. Si tratta solo di ritrovare la strada maestra. Quella tracciata dalle triple allo scadere di ‘Big Shot Rob’, evitando poi di implodere come Kobe e Shaq.
Salvo poi pentirsi a mezzo facebook.