L'EDITORIALE - Lettera a Kevin Garnett. Che odio. E che amo
Caro Kevin
ultimamente la moda è quella di scrivere lettere alle superstar che si ritirano, provando a sintetizzare in poche righe tutto quel che è stato di una lunga carriera. Lunghissima nel tuo caso.
Questa mania non mi ha sempre trovato d’accordo, anzi. L’ho spesso trovata come un contenitore colmo di vuota retorica, di frasi fatte, di tutto ciò che un atleta non vorrebbe si dicesse o si ricordasse di lui.
Non l’ho fatto per Kobe che pure è stato l’idolo di una vita, tanto meno l’ho fatto per Tim che di fronte a tutto questo si sarebbe fatto una grassa risata, ammesso e non concesso che sia in grado di sorridere.
Perché, quindi, dovrei farlo per te?
Perché, ancora una volta, mi hai spiazzato.
Cioè sapevo che prima o poi avresti detto basta anche tu, lasciandomi solo con i miei ricordi di adolescente dei primi anni 2000 e con la voce di Buffa che nella courtside countdown di Nba Action pronuncia il tuo nome come mai prima e mai dopo.
Ma speravo che, almeno nel tuo caso, l’appuntamento con l’inevitabile sarebbe stato rimandato.
Anche se per poco, anche se per un’altra stagione.
Per questo, devo dirtelo, ti odio.
Non con quella ferocia sportiva che ho provato nel 2008 quando prendesti letteralmente a calci in culo i miei poveri Lakers nelle Finali, ma con quella punta di “celeste nostalgia” di chi vede un altro pezzo della propria giovinezza che “si fugge tuttavia”.
Un’ estate intera a giocare con i sentimenti di tutti noi (mi ritiro, non mi ritiro, vado avanti, anzi no, smetto) e poi questo, il colpo di grazia peggiore possibile. Che mi costringe a scrivere quello che, per dirti, tra un anno non avrei mai scritto.
Ed è giusto che tu sappia, quindi, che prima di odiarti, sportivamente e non, ti ho ammirato.
Non per quello che hai fatto in campo, figuriamoci: sarebbe fin troppo riduttivo.
Ti ho ammirato per quel che sei stato fuori.
Per aver saputo affrontare la solitudine.
Quella sportiva, che ti ha portato a lasciare in lacrime Minneapolis alla ricerca di un trofeo che legittimasse la tua grandezza.
Quella umana, che nell’arco di sedici anni, ti ha visto salutare prima Malik e poi Flip.
E, poi, ti ho ammirato per la tua motivazione.
Per essere stato sempre quello che “non importa quanto ti alleni perché da qualche parte nel mondo c’è qualcuno che si sta allenando più di te. E quel qualcuno sono io”.
Per avermi dimostrato che il duro lavoro paga e che non bisogna mai mollare, che tanto l’occasione buona arriva.
Per continuare a farmi credere che ‘la rivoluzione’, quella vera e non su un campo da basket, sia ancora possibile.
Infine, ti ho ammirato per il tuo farti da parte.
Il tuo saper accettare che Father Time è l’unico avversario che non può essere sconfitto visto che, lui si, è davvero quello che si è allenato più di tutti.
Il tuo metterti a disposizione dei giovani Wolves, compreso il #32 che dal #21 vorrebbe ancora imparare qualcosa.
Probabilmente lui, oggi, è quello che si sente più solo di tutti.
Eppure, mentre scrivo, mi è venuto in mente che forse è questo l’insegnamento più grande che puoi dargli.
Perché se si vuol diventare come te bisogna passare attraverso quel che hai passato tu.
Quindi attraverso la solitudine.
Che non sarà il massimo, ma ti rende più forte di quanto tu stesso possa immaginare.
E, quindi, se tra qualche anno parleremo di KAT come parlavamo di te, avrai raggiunto il tuo scopo.
Anche se, permettimi, un modo migliore potevi trovarlo.
Perché KAT, oggi, sarà anche il più solo di tutti, ma, poi, ci siamo anche noi.
Con i nostri ricordi e le nostre lacrime di fronte alla courtside countdown della nostra vita.
Con un grande (ma non unico) protagonista.
Kevin Garnett.