LeBron, i Warriors e le Finals: oltre il concetto di vittoria e sconfitta
Quando, due anni fa, mi ritrovai a prendere le difese di LeBron James al termine di una serie che i Warriors dominarono ben più di quanto non disse il 4-2 conclusivo, credevo che nella Nba del XXI secolo non mi sarebbe più capitato di rivedere un giocatore di una squadra perdente metter insieme numeri del genere senza incidere sul destino delle Finals. Il fatto che, da allora, lo stesso giocatore (che, nel frattempo, ha avuto modo di legittimarsi del tutto con uno dei più incredibili titoli della storia recente del Gioco), sia diventato l’unico della storia a mandare a referto una TRIPLA DOPPIA DI MEDIA nella serie conclusiva, ma anche il primo MVP a perdere cinque finali in otto partecipazioni (di cui sette consecutive), significa, sostanzialmente, due cose:
- quando si parla di LeBron Raymone James, il concetto di vittoria/sconfitta è decisamente relativo;
- i Golden State Warriors 2016/2017, piaccia o non piaccia (agli haters) sono una delle squadre, su singola stagione, più forti di sempre, ben al di là del 16-1 custodito nei libri di storia per le future generazioni;
Basterebbe questo per fotografare l’andamento delle cinque partite che hanno consegnato ai californiani il secondo titolo in tre anni. Ma, poi, non si darebbe giusto risulato alle storie laterali che hanno fatto a contorno al duello all’ultimo canestro tra il predetto James e un Kevin Durant molto più che in missione (35.2 punti di media, 55% dal campo, 47.4% da tre, 92% ai liberi, ovvio e plebiscitario MVP). Perché tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’esaltante difesa di Klay Thompson su Irving, la sottovalutatissima serie di Curry (26.8 punti, 9.4 assist e 8 rimbalzi di media), la multidimensionalità di un Draymond Green che aspettava questo momento da un anno, la fisicità di Pachulia, la capacità di Steve Kerr di costruire un sistema difensivo basato su cambi e aiuti costanti sul pick and roll centrale dei Cavs; così come, dall’altra parte, si può legittimamente recriminare sui passaggi a vuoto di Jefferson e J.R. Smith, sulle difficoltà di Kyrie Irving di riemergere dalle pieghe della serie, sul mancato impatto nel pitturato di Love e Tristan Thompson, su un Deron Williams capace di trovare il primo canestro dal campo in gara 4, sull’inconsistenza di coach Lue di trovare una soluzione al KD schierato da 5 che ha allargato il campo (in gara 3 soprattutto) e la distanza tra le due squadre, rendendola, di fatto, incolmabile.
Ciascuno, ovviamente, ha una sua chiave di lettura, una sua spiegazione del perché la Finale più attesa (e scontata, visto l’andamento dei playoff) è andata in un modo piuttosto che in un altro. Resta il fatto che ci sono partite, momenti, situazioni, in cui bisognerebbe andare oltre la logica del “chi vince ha sempre ragione”, se non altro perché il trofeo è uno e le pretendenti 30, poi 16, poi 8, poi 4, poi due, con il livello medio che si alza sempre di più, ben al di là di quanto racconti il tabellino all’ultima sirena. Gara 5 è stata una di quelle partite, uno di quei momenti, una di quelle situazioni: e sfido chiunque a dare del “perdente” al giocatore (e alla di lui squadra) che è andato in tripla doppia di media contro uno dei pochi veri “superteam” dell’era moderna.