L'All Star Game che ha riscritto la storia
Doveva essere un grande spettacolo. E, fortunatamente, le attese non sono andate deluse anche al netto di qualche infortunato eccellente di troppo che non ha potuto, per parafrasare LeBron, “portare il proprio talento al Madison Square Garden”. L’All Star Game numero 64 è già entrato nei libri di storia di questo giochino che tanto ci piace. Quando la Nba mette in mostra il meglio che c’è lo spettacolo è comunque assicurato ma, a questo giro, tutto aveva quel quid in più che non guasta mai. Nel solito, meraviglioso, scenario della “World’s greatest Arena”.
Numerosi gli spunti, fin dal venerdì. A prendersi il proscenio del “Rookie challenge” è stato Wiggins, mattatore della partita Usa – Resto del mondo. Non serviva certo questa esibizione extralusso per certificare la crescita esponenziale del canadese più cool del momento, ma la prestazione livello 5 stelle e l’inevitabile trofeo di Mvp hanno confermato tutto quanto di buono si va dicendo da inizio stagione sul talentassimo dei T-Wolves. Ai più attenti, tuttavia, saranno tornate in mente le dichiarazioni di Kobe Bryant, assente causa ennesimo infortunio di questa travagliatissima fase della sua carriera: «I giovani giocatori europei sono molto più pronti degli americani. Qui da noi non si insegnano i fondamentali» ammoniva non più tardi di qualche settimana fa il “Black Mamba”. E se la gara ha comunque una valenza relativa, non si può non notare come chi arriva dall’Europa non è più così refrattario all’adattamento al tipo di pallacanestro che si gioca oltreoceano. Meno isolamenti e pick and roll, più attenzione alla zona e all’uso del piede perno dal post: la strada intrapresa è questa e difficilmente si tornerà indietro. A proposito, segnatevi questo nome: Rudy Gobert. Ne sentiremo parlare a lungo nella prossima decade.
Il sabato, come da tradizione, è stato il giorno più atteso. Il giorno di Stephen Curry e Zach LaVine. Ma se per il primo l’appuntamento con la storia era quasi un dovere, il diciannovenne rookie dei Timberwolves è stata la sorpresa più gradita dell’intero weekend. Nello “Slam Dunk Contest” migliore da anni a questa parte, la guardia da Ucla ha dato sfogo al proprio imbarazzante atletismo, unito ad una creatività fuori dal comune: quattro schiacciate una più bella dell’altra, al grido di “White man can jump!”. Niente auto o moto da saltare, niente pupazzate in maschera (sebbene Oladipo in versione Frank Sinatra si sia lasciato apprezzare), niente teste celebri da sorvolare: semplicemente uomo contro forza di gravità, come ai tempi di Dominique Wilkins e Michael Jordan. Quello che, con “Space Jam”, mise in testa a un ragazzino di Renton l’idea meravigliosa che nulla è impossibile. Nemmeno schiacciare ad altezze proibitive facendosi passare la palla dietro la schiena o sotto le gambe.
Di Curry sarebbe persino noioso parlare ma è giusto pagare il tributo a una prestazione da leggenda. Primus inter pares nella gara del tiro da tre più spettacolare di sempre, 27 (VENTISETTE) al giro finale con la faccia di Klay Thompson, che avrebbe tirato dopo di lui, che era tutto un programma. Se la lega non gli appartiene manca davvero poco: leggasi dei playoff (e, perché no, delle Finals) da protagonista assoluto. E Belinelli? Marco non ha sfigurato al cospetto dei migliori specialisti del mondo, ma di fronte all’onnipotenza del figlio di Dell non ha potuto far altro che cedere il titolo di “Re delle Triple”.
Infine la domenica, con la partita delle stelle vinta dalla Western Conference (163-158). Non è questa la sede per addentrarsi nella solita discussione sulla disparità di competitività tra Est e Ovest, che da anni vede le franchigie sulla sponda del pacifico un gradino sopra rispetto alle omologhe atlantiche. Di certo non è passato inosservato il definitivo “passaggio di consegne” alla nuova generazione di supereroi del parquet. Non più Bryant, Wade e compagnia, che hanno dominato la prima decade degli anni 2000, e spazio ai Curry, Harden, Lillard, Westbrook, protagonisti dell’oggi e, soprattutto, del domani.
Detto di un una serata da record (321 punti totali, 48 triple mandate a bersaglio), il canovaccio è stato il solito. Parziali tennistici, giocate ai limiti dell’irreale, difese allegrissime e un nome su tutti: Russel Westbrook che alla voce punti scrive 41 (27 nel solo primo tempo, record assoluto) e si porta a casa il titolo di Mvp. Una prestazione specchio di tutto ciò che incarna il fenomeno di Long Beach. Capace di farti impazzire nel bene, quando alle doti di cui è stato omaggiato da madre natura riesce a coniugare la capacità di tenere acceso il cervello; nel male quando si incaponisce a voler fare di testa sua, giocando di fatto al contrario. Per questo le fortune di Okc, più che da Durant (la cui maturazione è orami acclarata), dipenderanno da quanto e come l’ex “Bruin” riuscirà a regolare il feng shui della propria pallacanestro. Soprattutto da aprile in poi, quando conta davvero.
Ora tre giorni di pausa con la ripresa fissata per giovedì 19. Thunder-Mavericks e Clippers-Spurs le gare che apriranno lo sprint finale della regular season.