La fine di un'era (e l'inizio di un'altra).
10 titoli, 3 titoli di MVP della stagione regolare, 5 delle Finals, ma soprattutto 39 anni di lealtà. Verso una squadra, una sola, quella da dove si è partiti e dove poi tutto si è chiuso. Di numeri da aggiungere ce ne sarebbero tanti altri, ma tanto basta a rendere l’idea di un capitolo che si chiude qui. Da una parte Kobe Bryant, dall’altra Timothy – detto Tim – Duncan. Così uguali e così diversi, così vicini, ma su due mondi opposti, così vincenti e così rappresentativi. Il basket degli anni ’90 si chiude, per certi versi, così a distanza di due mesi: a metà aprile, con la chiusura della Regular season, era stato Kobe a salutare tutti, con il più famoso dei “Mamba Out” e con una prestazione da 60 punti che, probabilmente resterà nella storia del gioco come la migliore ultima uscita di sempre. Tutto secondo copione; siamo ad Hollywood ed il finale non poteva essere migliore per un film ventennale come il suo. Lontano da luci e lustrini, invece, il saluto di Tim Duncan, figlio di una pallacanestro silente, che si toglie sassolini dalle scarpe senza parole, ma con una penna sempre pronta a riscrivere la storia.
Da una parte cortei lunghi un anno e tournée in tutto il paese, dall’altra il ritiro lontano dalle telecamere, annunciato tramite TV e giornali, accertato con una lunga lettera ai propri tifosi. Kobe e Tim, in fondo, non sono stati tanto diversi: hanno giocato, hanno vinto, hanno portato cinque titoli alle loro squadre, i Los Angeles Lakers ed i San Antonio Spurs. Le squadre, sempre le stesse, le due che li hanno presentati alla NBA e per le quali hanno vestito i colori per un ventennio. Kobe a LA neanche doveva arrivarci, ma dobbiamo tutti ringraziare Charlotte per aver dato una mano a scrivere una delle migliori storie sportive di sempre; Tim, invece, in Texas è stato il salvatore, l’uomo in più per cominciare la scalata al successo. Uomini, ma anche simboli ed autori di coppie da urlo: non quelle con i compagni (anche se tutti non dimenticheremo mai l’immensa importanza di gente come O’Neal, Robinson, Parker, Ginobili, Gasol nelle vittorie dell’uno e dell’altro), ma con chi li gestiva dalla panchina. Phil Jackson e Gregg Popovich, anche loro diversi, anche loro innovativi, anche loro vincenti. Li hanno trattati come figli, li hanno presentati al mondo, li hanno resi i campioni che sono stati. E poco importa se le parole sono state meno importanti dei gesti, perché saranno quei gesti a restare nella memoria collettiva di chi ama questo sport.
Per un tempo che si chiude, un altro che inevitabilmente proverà a riaprirsi. Quello della ‘loyalty‘ non è più un tema da cavalcare; lo spostamento di LeBron da Cleveland a Miami qualche anno fa ha portato lo stravolgimento di ogni gerarchia. Oggi, a cinque anni di distanza da quel momento, Derrick Rose lascia Chicago per andare a NY, mentre DWade, dopo una vita e tre anelli in Florida, lascia Miami per occupare lo spazio vuoto nella ‘sua’ Windy City. Paul Pierce non è più simbolo di Boston, nemmeno Garnett e di Rondo non parliamone neanche. E se vedere Kevin Durant in maglia Warriors fa scalpore, bisogna davvero accettare che i tempi siano cambiati. Alle loro spalle, alle spalle di chi insegue, in un modo o nell’altro, la possibilità di vincere un anello che ancora cambi la propria carriera, una serie di giocatori giovani e già pronti a cambiare le regole della Lega. L’ultimo Draft non è stato il più pubblicizzato degli ultimi anni, ma rischia di potersi rivelare tra qualche anno uno dei più interessanti di sempre, così come furono quello del ’96 (Kobe, Iverson e compagnia) o del 2003 (LeBron, Bosh, Wade, Melo, Milicic…si, anche Milicic). Simmons e Ingram hanno talento, Dunn, Maker e Valentine non scherzano. Raggiungono i vari Okafor, Davis, Antetokounmpo, Parker, Wiggins; con qualche anno in più, ma ancora tanta voglia di emergere. Pensare che resteranno tutti nelle rispettive squadre è una pretesa troppo alta; non siamo di fronte ai Barkley, agli Iverson, ai Malone che non riescono a portare titoli dove sono uomini-franchigia, ma a giovani uomini che fatturano come industrie dello sport e possono cambiare le loro vite solo spostandosi di 200 chilometri. Ma potremo divertirci ancora, proprio come abbiamo fatto fino ad ora. Perché, in fondo, it’s basketball, baby.