La classe operaia in paradiso. Livingston e Iguodala, quando gli uomini valgono la vittoria
Lo chiamano l’uomo del mid-range. E a buon motivo. Perchè il tiro dalla lunga distanza, diciamocelo, non è sempre affidabile. E perchè da quel 2007 andare al ferro non è sempre avventura pacifica. Si, nella mente di Shaun Livingston l’infortunio di nove anni fa è ancora vividissimo nella testa. Aveva la maglia dei Clippers ed il ginocchio a pezzi; gli dissero che difficilmente avrebbe rivisto il parquet, figurarsi come poteva tornare ai livelli che l’avevano portato ad essere uno dei prospetti più interessanti del 2004. Dev’essere stata una bella rivincita quando, un anno fa, ha alzato in faccia a tutti l’anello più bello, quello di campione NBA.
La stagione successiva, per un campione NBA, è sempre la più difficile. Ma lui ha saputo riaffermarsi ancora una volta. Il suo ruolo è chiaro a tutti, da Kerr all’ultimo dello staff Warriors; i suoi 6.3 punti di media a partita lo testimoniano, è la prima alternativa ad uno che di nome fa Stephen Curry, non proprio l’ultimo arrivato. Ed in più sa farsi trovare pronto quando il prodotto di Davidson non c’è o non è proprio in serata.
L’ha fatto nella serie con Rockets e Blazers, quando i problemi a ginocchia e caviglie costrinsero Steph a stare fermo ai box a cavallo tra le due serie. Ancora si è ripetuto stanotte, quando il ferro sputava fuori ogni tiro di Curry e lui ne ha messi a referto 20, conducendo letteralmente Golden State alla vittoria. La partita non era un appuntamento di fine stagione, ma una Gara 1 di Finals NBA, uno di quei palcoscenici che se ti capitano una volta ringrazi il cielo, due cerchi di meritartelo. E lui ha saputo meritarselo tutto, con pochissimi errori (8/10 al tiro alla fine) dal campo ed una leadership silente. Il suo plus/minus recita +20 quando suona la sirena finale. Meglio di lui (+22) ha saputo fare solo Iguodala.
Iggy, appunto, l’altra freccia all’Arco di Golden State. Altro sesto uomo di lusso che ieri ha ricordato al mondo perché un anno fa, mentre tutti i suoi compagni mostravano l’anello di campioni NBA lui sapeva anche fregiarsi del titolo di MVP delle Finals. I suoi punti alla fine sono 12, con due triple che hanno spezzato i sogni di rimonta dei Cavaliers. Ma, cosa ancor più importante, ha saputo cancellare quasi ad ogni azione lo strapotere fisico e tecnico di LeBron James. Non farlo partire in quintetto, preferendogli Barnes, è stata la mossa giusta di un Kerr che dopo il primo episodio di queste Finals sa di poter contare su un gruppo di uomini e giocatori che vale ben oltre le copertine dedicate a Curry, Klay o Green. Perchè se è vero che i campioni fanno sempre la differenza, sono sempre le squadre alla fine ad avere la meglio. E lui, Steve Kerr, uno che ha ricevuto dalle mani di Jordan la palla che valeva un titolo, lo sa meglio di tutti.