Io, Baron Davis e la mia America: intervista a coach Andrea Mazzon
“Noi italiani abbiamo qualcosa in più”. Esordisce così coach Andrea Mazzon, assistant coach in D-League dei Delaware 87ers ed ex capo allenatore di Panionios, Jesi, Verona, Salonicco, Imola, Napoli, Bologna e la sua Venezia. Quel pizzico in più che hanno gli italiani lo scopriamo e lo percepiamo nettamente in un uomo dalla forte impronta cosmopolita, un uomo che ha viaggiato tanto, ha visto tanto e, ora, può ritenersi sicuramente una persona completa. La nostra chiacchierata trasversale tocca i punti più disparati, dalle questioni culturali che differenziano inequivocabilmente il Bel Paese dall’America che sta vivendo da un anno a questa parte, fino ad arrivare alle più note disquisizioni tecniche degli affiliati dei 76ers e delle dinamiche del The Process. Il palmares di coach Mazzon, del resto, parla da solo: è il secondo allenatore italiano dopo Ettore Messina per numero di finali europee disputate (3); ha vinto la Coppa Korac nel 1997 e ha raggiunto la finale nel 1996 e nel 2007; è stato votato Allenatore dell’anno in Italia nel 1997; ha allenato la selezione all star in Grecia nel 1999 e nel 2007. E, visto che abbiamo iniziato con una sua citazione, prima di tuffarci nella nostra chiacchierata, vi lasciamo un’altra perla di saggezza del coach mestrino: “Amo il gioco davvero, costi quel che costi. Non vedo l’ora di insegnare i fondamentali del gioco, per esplorare i concetti e movimenti che rendono il basket il più grande gioco mai esistito. Non vedo l’ora di sentire il suono dalla folla dopo una vittoria, il suono della palla che rimbalza e il rumore dei tifosi che ci credono ancora una volta. Soprattutto, non vedo l’ora di portare dodici persone in cerchio prima di iniziare l’allenamento, di guardare nei loro occhi, e capire che siamo una squadra. Il gioco per me è tutto, anche se la vittoria non ti fa star bene nella stessa misura in cui ti fa star male una sconfitta e l’umore positivo non dura quanto quello cattivo”.
Vorrei cominciare proprio da lei, dai suoi modi e dalla sua idea di pallacanestro. Possiamo definirla, anche a 50 anni, un vero e proprio Studente del Gioco, nonostante una carriera di tutto rispetto. È sempre stato concentrato molto sui fondamentali e sul lavoro in palestra. Si è mai chiesto cosa spinge questa sua smodata (e ovviamente condivisa) passione per il Gioco?
«Senza scendere troppo nel merito dei paragoni ma credo che quello che diceva Kobe in occasione del suo ritiro riguardo il rispetto per il gioco sia la cosa più importante. Il gioco mi ha dato molto, mi ha tolto molto, anzi moltissimo, ma tutto ciò che ho fatto l’ho sempre fatto per il gioco del basket, o come dicono gli americani per “The Game”. È un po’ difficile da tradurre per il nostro tipo di cultura ma è sicuramente qualcosa di speciale. È una cosa che va oltre la pallacanestro perché fai tutto seguendo il rispetto della filosofia che lo sport ha. Quindi secondo me c’è un solo modo per fare questo gioco: studiarlo, continuare a studiarlo e insegnare i fondamentali. Poi, certo, quando ti accorgi di aver migliorato molti giocatori, di averne prodotti tanti, sei ancora più stimolato. Anche quest’anno sotto questo punto di vista è stato bellissimo perché ho fatto un ottimo lavoro con quei ragazzi che poi son passati in NBA. Queste sono soddisfazioni che vanno oltre, sono molto più importanti delle vittorie e delle sconfitte. Il gioco in generale conta di più delle vittorie e delle sconfitte».
Giocatori di grandissimo livello come Mike Penberthy e LaMarr Greer la reputano un maestro, sottolineando come lei abbia una particolare propensione per la componente mentale del gioco. Quanto crede che sia fondamentale per riuscire a dare il meglio in campo?
«Credo che sia completamente determinante e credo allo stesso tempo che gli istruttori, gli allenatori italiano siano molto bravi sotto questo profilo e abbiano grandi capacità di trasmettere la passione e di trasmettere il concetto di lavoro di squadra. Con le dovute differenze, lo stesso Ranieri in Inghilterra sta lavorando su queste idee. Questa è una cosa che ci caratterizza e non è un caso che abbiamo un allenatore che allena la Spagna, con la quale ha vinto 3 mondiali, un allenatore che è in NBA, un altro come me che ha fatto quello che ha fatto anche in Europa… Io credo che noi allenatori italiani abbiamo molto da dare sotto questo punto di vista. Poi, ovvio, è strano rendersi conto che molti di questi debbano lavorare fuori e non in Italia».
Avendo esperienza da vendere, è d’accordo quando Kobe dice che “i giocatori europei sono molto più tecnici perché gli allenatori europei insegnano il gioco nella maniera più giusta per i ragazzi giovani e perché negli USA vengono trascurati molto i fondamentali”?
«È giusta ma non è giustissima, nel senso che è più giusta se abbiamo una visione esterna, da fuori, ma una volta che sei dentro gli ingranaggi la si interpreta effettivamente per quella che è. Qui in America ci sono milioni di giocatori e l’obiettivo è quello di far rendere i giocatori al massimo, di farli giocare nella posizione loro migliore. Lo scopo dell’allenatore è quello di creare situazioni in cui i tuoi giocatori più bravi siano quelli che abbiano la palla in mano. Ora cosa succede: da noi siamo costretti molte volte a “tirar fuori il sangue dai muli”, dalle rape – quindi giocatori bianchi, poco atletici, che hanno caratteristiche fisiche “normali” – e di conseguenza devi lavorare e devi migliorarli obbligatoriamente per quello che sono. Negli USA ci sono molti più giocatori numericamente parlando e se uno non è abbastanza bravo, non fanno altro che dire “Ok, avanti il prossimo”. È anche questa una grande motivazione».
Tornando a Lei, ha dichiarato che nel 2014 ha rinunciato a panchine europee per proseguire la sua attività oltreoceano. Cosa la attrae così tanto? Cosa l’ha spinta a rimanere a Newark e non a tornare in Europa?
«La cosa che mi ha spinto di più è stata la voglia di imparare perché c’è tanto da imparare, perché il modo che hanno loro di insegnare il basket è un modo completamente diverso dagli altri, un modo che ti fa diventare migliore sotto tutti gli aspetti perché mescoli più culture e secondo me quando ci sono delle possibilità di unire più culture in qualunque tipo di attività della vita è sempre un grande motivo di crescita. Quando sento cose del tipo “l’immigrato o le persone che vengono da altri continenti possono portarci via il posto di lavoro” stento a crederci perché sono cose completamente sbagliate. Le possibilità che noi abbiamo di misurarci, di vedere altre culture e di imparare altri fanno tutta la differenza del mondo. Noi italiani storicamente siamo stati così per duemila anni, mentre adesso pensiamo che la cosa sia diversa. Noi stessi italiani siamo diventati grandi nel mondo proprio per questo motivo, imparando dagli altri, andando in giro a portare la nostra cultura mescolandola con quella degli altri. Così siamo diventati migliori. Dal Sud America agli Stati Uniti, dai Paesi del Nord Europa alla Svizzera, alla Germania… ma quanti italiani ci sono? Siamo praticamente ovunque. Quindi dico in primis che queste cose non possiamo mai dimenticarle, anche a livello culturale; punto secondo, dobbiamo capire che più impariamo dagli altri meglio è».
Abbiamo citato Newark quindi direi di restarci. È arrivato ai Delaware con l’incarico di vice allenatore, di scout ma è anche addetto al lavoro sui fondamentali tecnici individuali e di squadra. Kevin Young è il capo allenatore ed ha solo 34 anni. Insomma, una persona più giovane che guida la squadra e una più esperta alle sue spalle. Un po’ come la coppia Mazzon-Zorzi ai tempi della Reyer Venezia…
«La differenza tra i Sixers e i Delaware – dove lavoro io – sta nel fatto che il mio compito è un po’ come quello di un mentore per il capo allenatore, per fargli capire secondo me molte cose di una cultura diversa di basket, dandogli magari un’idea di cosa sta succedendo in un’ottica diversa, un approccio completamente differente. Il discorso di Tonino Zorzi è leggermente diverso: l’ho voluto io proprio perché penso che le persone con grande esperienza, quelle di una certa età, quelle che hanno visto molte cose, hanno molto da dare ancora. Questa è un’idea che anche gli americani hanno: sono molto rispettati i “vecchi saggi”. Per quanto riguarda, invece, il lavoro che ho fatto in D-League ai 87ers, ho ricoperto più un ruolo da “coach associated” più che di “assistant coach”. Praticamente come se fossi un capo allenatore affianco al capo allenatore. L’idea è quella di avere due capo allenatori vicini».
La stagione degli 87ers è stata più che discreta e ha prodotto anche giocatori molto interessanti. Kilpatrick, MacRe, Smith, Wood, tutti giocatori che hanno giocato o che giocano per squadre NBA. Dai numeri, piuttosto impressionanti, si direbbero dei grandissimi realizzatori. Chi ritiene più pronto per un posto stabile in NBA?
«Intanto va detta una cosa: i ragazzi non sono solo grandi realizzatori ma siamo stati la squadra migliore nella storia della D-League e dell’NBA ad avere almeno 3 giocatori nella stessa squadra a fare più di 45 punti nello stesso anno. Questo record, ovviamente, ha agevolato molto il modello di gioco e non solo i singoli. È comunque il sistema di gioco che li ha aiutati, li ha portati a fare certi numeri. Per quanto riguarda i singoli: Jordan McRae ha fatto nell’ultima gara di regular season NBA 36 punti, quindi un po’ bravo è. Sean Kilpatrick ha fatto 20 di media in quei Brooklyn Nets dove sì il campionato è finito da tempo sono ma comunque sono 20 di media e bisogna sempre saperli fare. Christian Wood non è entrato in campo con i Sixers ma ha avuto un contratto NBA. Quindi diciamo che abbiamo prodotto 3 giocatori e tutti e 3 hanno un contratto in NBA e già questa è una cosa speciale. Il discorso di Russ Smith è un po’ diverso: ha segnato 65 punti in una gara – una prestazione assurda – però quella partita l’abbiamo persa. Resta il fatto che il sistema con il quale siamo riusciti a farlo andare a segnare è una cosa che aiuta molto i giocatori. Io penso che, anche da un punto di vista personale, visto la fatica che ho fatto per convincere tutti per farlo giocare playmaker quando lo facevano giocare da 3, credo che McRae sia un giocatore con il quale ci sia di fare, dotato di grandissimo talento. È un giocatore di 2m che ora gioca playmaker – altra soddisfazione personale nel far capire agli altri che si trattasse di un play e non di un’ala piccola – sa fare davvero tantissime cose. Mi sono anche affezionato al ragazzo perché lavora molto bene. Quindi dico Jordan».
Volevo punzecchiarla anche dal punto di vista culturale, visto che ne abbiamo parlato in precedenza. Senior coach e ragazzi molto giovani sui quali si investe subito, una formula che dalle nostre parti è sempre merce rara. In un’intervista ha definito il modo di vivere il basket come “La vita per la pallacanestro”, quasi ad anteporre l’amore per il gioco a tutto il business, non indifferente, che c’è dietro. Perché secondo lei questo modello non viene adottato anche in altri contesti, magari europei?
«Ti dirò, invece, che secondo me nell’Europa del Nord c’è grande spazio per i giovani, mi riferisco all’Inghilterra, ai paesi scandinavi e non parlo solo di sport. Il problema è che noi siamo un paese vecchio e sembra che da noi essere giovane significa essere sfigato. Questa è la cosa peggiore. Io l’ho pagato sulla mia pelle perché sono diventato capo allenatore a 29 anni e la difficoltà nel sentirsi dire “Ah, sei scarso perché sei giovane” è una cosa allucinante. La fortuna è che sono riuscito a stare in Grecia per 5 anni, ad uscire dal nostro paese altrimenti questa cosa ti attanaglia ed diventa insopportabile. In ogni caso le possibilità bisogna anche costruirsele: qui è frequentissimo vedere 4/5 ragazzi che prendono un appartamento, si cercano un lavoro, dividono le spese, cercano di far qualcosa. L’idea di uscire di casa, di non restare con i genitori è una cosa forte ed è già un passo avanti. Un po’ siamo pigri noi, sicuramente. Un po’ è anche che la nostra economia, che è talmente in difficoltà che il giovane viene quasi visto negativamente. Certo non ho la soluzione ma quello che posso dire è che i giovani devono farsi più il culo, devono provare a fare di più, devono uscire e cercare di emergere. Aspettare che i vecchi facciano qualcosa per loro non serve a nulla perché non succederà mai. Le posizioni di rendita questi non le mollano».
Spesso gli scout e i GM europei cercano di pescare più dalla NCAA che dalla D-League. Cosa caratterizza questo principio di concorrenza, solo apparente, tra i due sistemi e perché, quindi, i General Manager puntano ai più giovani e non eventualmente a quei giocatori che non sono adatti fisicamente alla NBA ma più pronti ad un basket europeo?
«Per poter commentare mi servirebbero dei dati che ora non ho ma posso dirti il mio punto di vista. Ho fatto praticamente un anno in giro: i primi 3 mesi con i Sixers e 5 mesi qui, in D-League, con i 87ers per poi fare l’ultimo mese ancora con Sixers. Posso dire che, con tutto il rispetto, secondo me si capisce molto poco fuori dall’America e soprattutto negli altri paesi di cosa sono i giocatori della D-League, di quanto forti siano. Si capisce veramente poco, si studia poco ed io ho avuto la fortuna di vederne tanti, di allenarli e si evince che c’è poca conoscenza di questo tipo di sistema perché i giocatori sono veramente forti. Parliamo di giocatori che potrebbero venire da noi e fare veramente bene».
Ha avuto la possibilità di lavorarci, di osservarlo da vicino e una domanda sul BARONE è d’obbligo: com’è Baron Davis? Come è stato accolto? In che forma si è presentato e quanto influisce la sua esperienza in una partita ma soprattutto in allenamento?
[Un sospiro prima di iniziare] «Stiamo parlando di una superstar assoluta, stiamo parlando di un All Star (2× NBA All-Star 2002, 2004 NdR), stiamo parlando di uno che potrebbe diventare un hall of famer, un giocatore incredibile e fortissimo. Posso solo dire che, sebbene fosse 10kg in sovrappeso, dopo ormai 6 operazioni alle ginocchia, ha voluto rimettersi in gioco così, anche a 38 anni così, ma capisci appena lo vedi cosa vuol dire essere un giocatore di alto livello – ha anche giocato le Olimpiadi con Team USA. Fortissimo, intelligentissimo, capisce il gioco. L’unica cosa che mi viene da dire è “pazzesco”, abbiamo visto momenti brillanti di talento puro. Realmente è come se fosse Picasso, con qualità estrose e artistiche unite a qualità tecniche indiscutibili. Sono rimasto davvero impressionato. Non sono stati tanti, però nel momento in cui faceva quelle cose lì ha illuminato veramente ogni cosa che ci fosse attorno. Poi è un personaggio simpatico, abbiamo anche molto legato perché eravamo i due più anziani della squadra. Ho allenato alcuni giocatori che erano suoi compagni di squadra tipo Toby Bailey (nelle stagioni greche, NdR), ho conosciuto e allenato Penberthy, Abdul Rauf (all’Aris Salonicco, NdR) contro il quale ha giocato contro tante volte… Il fatto di aver allenato persone che conosce e stima in campo e fuori ha aiutato il nostro rapporto, perché contribuisce ad aumentare il rispetto e la considerazione che ti viene data. Questi qui vogliono capire un po’ cosa hai fatto, chi hai allenato altrimenti non ti considerano molto».
Proviamo a dare uno sguardo al piano di sopra: i vostri affiliati non navigano in acque tranquille. Tanti record negativi, Sam HINKI che fallisce il suo processo durato quasi 4 anni, un numero esorbitante di sconfitte (nelle ultime 3 stagioni 47 vittorie e 198 sconfitte), una rebuilding che non trova compimento. Colangelo e soprattutto coach Brett Brown sono gli uomini giusti?
«Io di NBA posso dire realmente il giusto. Sono tanti anni che la seguo, è un anno e mezzo che sto dietro le quinte, praticamente ho passato più di 3 mesi sempre negli uffici dei Sixers. Sam è anche un mio amico, quindi faccio realmente fatica ad avere un’opinione giusta. Però posso dire che non è vero che Sam Hinkie ha fallito perché le scelte fatte sono scelte che erano stata prese, da quello che io posso capire, in accordo con la società. I proprietari hanno deciso di fare questo. C’erano sostanzialmente 2 strade: continuare a tenere certi giocatori tipo Iguodala e continuare con una squadra forte e con giocatori sufficienti per fare i PO – non per vincere ma per arrivare alla post season bene – oppure potevano dire facciamo il rebuilt e mettere in atto il famoso “The Process”, che doveva essere di 5 anni. Chiaramente succede che quando non vinci mai, sebbene sei consapevole di essere in un momento transitorio, i proprietari non hanno fatto altro che chiedere a Sam di affiancarlo ad un’altra persona. Poi devo ammettere che la gente non conosce molto bene (essendo osservatori esterni) le dinamiche NBA: le squadre NBA non appartengono ad un solo proprietario e dunque si deve far capo a molte persone. Le scelte vanno prese sempre da un gruppo e non si può dare la colpa ad una sola persona. Per quanto riguarda Colangelo, la sua carriera parla da sola. Ha fatto grandissime cose già a Toronto quando lavorava insieme al nostro Maurizio Gherardini. Resto dell’idea che bisogna rispettare Sam per quello che ha fatto, perché è stato un grande lavoro e va rispettato, così come il modo di uscire di scena. Sono convinto che Brett Brown e Bryan Colangelo faranno benissimo e avranno l’opportunità di riportare i Sixers ad alti livelli».
Spostiamoci a temi di maggior attualità. Golden State, San Antonio, Cleveland, OKC…chi vede favorito per il titolo? Crede che si possa fermare la macchina dei Warriors?
«Secondo me Golden State vince a meno che non perda prima con gli Spurs. Non credo che altre squadre ad Est possano battere queste due, salvo miracoli. Io ho avuto la fortuna di vederle dal vivo quasi tutte e devo dire che vedere loro rispetto, per esempio, ai Cavaliers e queste squadre così, si capisce quanto sia grande la differenza. È come se fossero due realtà diverse, come se ci fosse chi “chi va in moto” e “chi va sopra un jet”. C’è moltissima differenza di velocità, di intensità, di tutto. Ecco, l’unica squadra che ha le capacità difensive può essere SAS, questo è quello che penso».
Un pezzetto d’Italia, dal punto di vista di coaching, è anche in NBA. Il bagaglio teorico e pratico che la Spurs Culture ti dà è difficile da misurare ma, procedendo per inverso, quanto secondo lei Ettore Messina sta dando all’organizzazione Spurs?
«Questo è difficile da stabilirlo, perché non viviamo tutti i giorni la vita di Ettore. Vedo cosa posso dare io da europeo e quindi posso immaginare che lui, essendo il migliore allenatore d’Europa, possa portare una visione diversa, un grande insegnamento di come si deve giocare a pallacanestro, di come si devono usare certi angoli offensivi. Difensivamente è un allenatore talmente preparato che può essere e dovrebbe essere, mi auguro, un allenatore di NBA perché ha le caratteristiche e le capacità per farlo».
Tutta la competenza, la disponibilità e la cortesia di un grande uomo di sport. In due parole: Andrea Mazzon. Grazie coach, alla prossima!