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Il ritorno del Barone

DOVE ERAVAMO RIMASTI?
Penetrazione centrale di LeBron, tiro contestato, tabellone e ferro, Tyson Chandler la tocca verso la punta dell’arco. Primo sulla sfera di cuoio arriva, neanche a dirlo, lui, che senza pensare (specialità della casa numero 1) si lancia in contropiede a tutta velocità (specialità della casa numero 2). Sulla sua strada verso il canestro solo due giocatori degli Heat, più grossi o più atletici di lui: Mike Miller e Dwayne Wade. “Pensano davvero di potermi fermare? Non scherziamo.” Dietro di lui seguono il contropiede due suoi compagni, tra cui il suo amico Melo. Di passarla nemmeno l’idea, si va dritti al ferro. “Euro-step e due facili” avrà pensato poco prima di raccogliere il pallone per iniziare il terzo tempo. Un attimo di pausa. I replay proiettati sui mega schermi del Madison Square Garden non stanno trasmettendo né un canestro né un’esultanza. Sono da brividi ed i giocatori in campo si coprono gli occhi con le mani per non vedere. Si alza uno strano gemito dalle tribune del MSG, un sussulto di sconcerto misto ad amarezza e ribrezzo, per quello che tutti capiscono subito essere qualcosa di grave. Mentre è sulla barella, Amar’e Stuodemire, suo compagno, si raccoglie in se stesso, quasi pregando. James e Wade sono visibilmente scossi. La prognosi sarà micidiale: il ginocchio, il suo maledetto ginocchio destro, che gli crea problemi dai tempi del college a UCLA, ha ceduto. E si è portato via anche i legamenti. Ma è in campo che sorride, lui. E’ uno vero, nella vita ha sofferto e tanto. Cresciuto a Compton, non proprio i Parioli (per ulteriori info, citofonare Kawhi Leonard), senza padre e madre dall’età di 5 anni e con la sorella più piccola a carico. Ora, però, non è più un ragazzino: 33 anni sono tanti, il fisico è già logoro e non è facile tornare dopo un colpo di questa entità. E’ mentalmente, prima che fisicamente, K.O.
Il 6 maggio 2012, sul primo passo di quel terzo tempo, si chiude la sua carriera. “You live and you learn and that’s the whole thing”.

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I primi mesi post-operazione furono la parte più difficile, ovviamente: “Dovevo trovarmi qualcosa da fare per non pensare al Basket. Non sono Kobe, non mi interessava dimostrare al mondo che ce l’avrei fatta. Così stetti per la maggior parte del tempo a casa, lontano dalle telecamere. Guardai un sacco di TV e continuai a coltivare il mio sogno di diventare regista. Avevo bisogno di ritrovare me stesso. Mi serviva una pausa dal basket”. Ogni anno, da metà maggio, a Los Angeles vanno in scena diversi campionati paralleli che, riunendo giocatori di livello, organizzano vere e proprie leghe semi-professionistiche per consentire agli atleti di confrontarsi tra loro e restare in allenamento. La più famosa di queste associazioni è la “Drew League”, ormai nota a tal punto da esser sponsorizzata in tutto e per tutto dalla Nike. Alle partite partecipano fenomeni del calibro di James Harden, DeMar DeRozan, Klay Thompson e Bobby Brown (ex Siena), l’intensità di gioco è mediamente alta, sebbene a tratti assuma più la piega di uno show, ma alla fine la rivalità tra i campioni si fa sentire, tutti vogliono vincere ed il gioco, specialmente nella prima settimana di agosto (periodo di finali), si fa duro. Il nostro uomo è un assiduo frequentatore dell’ambiente e non può mancare. Macchè basket giocato, l’operazione è stata solo 3 mesi prima. Presenzia solo, purtroppo, per portare avanti la sua carriera da regista, realizzando un documentario proprio riguardo la “Drew League”. Il parquet non gli manca particolarmente, è riuscito da poco a disintossicarsi dalla palla a spicchi per non soffrirne la lontananza forzata. Tutte le stelle presenti lo avvicinano per congratularsi. E’ pur sempre un ex All-Star. “Mi son sentito ancora uno di loro. Questo mi faceva venir voglia di riprovarci. Ma ero infortunato e l’anno dopo fui ancora più preso con la carriera da regista”.

warriors12_PH_dunk1“2EZ”
Lui è Baron Walter Louis Davis, nato a Compton, L.A. Classe ’79 e terza scelta assoluta al draft 1999, per gli allora Charlotte Hornets. Terza scelta perché quel famoso ginocchio destro, quello per il quale si chiuse, dopo 13 anni di onorata carriera, la sua avventura NBA, faceva scherzi già ai tempi dell’università, quando il playmaker (al suo tempo) più moderno di tutti, dominava in lungo ed in largo coi Bruins. Cresciuto dai nonni in una situazione tutt’altro che facile, si è fatto largo grazie ad un fisico tutt’altro che comune ed un carattere tutt’altro che remissivo. Il Barone, nomen omen se ce n’è uno, è sempre stato contraddistinto da un’eleganza ed una classe cestistica rare per uno che si è formato nella scuola dei playground del ghetto. A 22 anni domina una partita al Rucker Parck di New York contro niente meno che Skip-To-My-Lou, al secolo Rafer Alston, guadagnandosi il soprannome “2EZ”, Too Easy, troppo facile: riferito alla semplicità con cui sembrava facesse ogni cosa su un campo da basket. Non per tutti. Un vero nobile del parquet dal talento smisurato, è stato il Barba prima di Harden, il playmaker-superatleta prima di Westrbrook (vedere foto), colui che ha reso famoso il terzo tempo con lo spin di 360° prima di Nick Young e molto altro. Un iniziato del gioco, un rivoluzionario sotto certi aspetti, ma soprattutto un personaggio. Showman con pochi eguali, “BoomDizzle” (soprannome più o meno traducibile in “qualcosa di maestoso”) ha stregato il mondo NBA con quel fare da duro seguito dal sorriso più largo della storia del basket. Dopo il suo ritiro arrivò a sostenere, in un intervista radiofonica, di esser stato rapito dagli alieni. MERAVIGLIOSO. Il magro bottino di 2 soli All Star Game non rende pieno merito al suo credito presso gran parte dei tifosi. In carriera ha vestito le casacche di Hornets (Charlotte prima, New Orleans poi), Warriors, Clippers, Cavs e Knicks, viaggiando a più di 16 punti, 7 assist e quasi 4 rimbalzi a partita in 13 anni di militanza. Ma dove eravamo rimasti?

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L’estate del 2013, dunque, Davis era troppo preso dalla carriera di regista. Giocò pochi minuti, giusto per sentire di nuovo il legno sotto le scarpe. Pochi minuti, già, ma quanto bastò a riaccendere il fuoco che ha aveva dentro. Decise di riniziare ad allenarsi “volevo vincere la Drew League. Mi allenai con CP3 alla Clippers’ Facility. Miglioravo giorno dopo giorno. Il sistema mi stava riassorbendo, potevo restare ed essere un secondo/terzo playmaker, ma mio figlio stava per nascere e, non avendo mai visto il mio (di padre, ndr), volevo esser presente per il mio primogenito, così mi tolsi dalla testa tutte le fantasticherie e suggestioni”. C’eravamo quasi. “Mi capitava sempre più spesso di veder partite di basket. Lavorai sempre più, dopo il parto di mia moglie, perchè sapevo di dovermi rimettere in forma”. Ah, intanto il figlio nacque e prese il “modesto” nome di Kingman Davis. Ogni commento sarebbe superfluo. Comunque, MERAVIGLIOSO.

NEVER UNDERESTIMATE THE HEART OF A BARON
“Fu colpa dei fans, iniziai a dar peso a tutti quei “Hey sei ancora giovane, puoi farcela”. In più avevo finalmente finito il mio documentario (accettato anche all’LA Film Festival 2015). Non potevo più nascondermi, così decisi di provarci”. Davis decise di formare la sua squadra per la Drew League di quell’estate. Non dovette più parteciparci per far riprese. Proprio questo suo hobby, la telecamera, sviluppato paradossalmente per riuscire ad allontanarsi dal basket, fu ciò che ce lo riavvicinò. “Finalmente iniziai a sembrare uno di loro, a camminare e parlare come loro. E loro, i giocatori, mi rispettavano e continuavano a spingermi oltre i miei limiti”. Ma il non-più-ragazzino ha ormai 36 anni ed una famiglia, bisogna fare i conti con la realtà. “Poi un giorno, mia moglie e mio figlio vennero alla mia prima partita. Kingman pianse dopo poco, era emozionato. Finalmente ritrovai sensazioni che non provavo da tempo.” Detto, fatto. Prestazioni di livello, video virali ed effetto mediatico immediato. Era di nuovo sulla bocca di tutti, era di nuovo considerato un giocatore, uno di loro. Il fisico reggeva alla grande, Baron era tornato a viaggiare abbondantemente sopra il ferro. Ah, non ve l’avevamo detto che i medici, dopo l’intervento del 2012, dissero che sarebbe servita una terapia di riabilitazione intensiva solo per poter camminare bene intorno ai 40 anni? “Never underestimate the heart of a BARON”.
Ebbene, signore e signori, ci siamo. Il fenomeno da Compton ha firmato con i Delaware 87ers (magra D-League) ed è pronto al rientro.
Hype alle stelle e fremito per l’attesa, è pronto a riportare il suo immancabile sorrisone sul parquet. Sebbene a noi, i fans, il sorriso venga ancor più grande al solo pensiero.

In bocca al lupo Barone.

E ben tornato.

About The Author

Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone