GRIZZLIES VS WARRIORS, Top & Flop: Curry cresce alla distanza, Allen e Conley non bastano
I Golden State Warriors hanno dovuto faticare non poco per avere ragione dei Memphis Grizzlies. I portacolori del Tennesse si sono dimostrati ben poco disponibili a recitare la parte delle vittime sacrificali sull’altare dei favoriti d’obbligo ma, alla fine, hanno dovuto comunque alzare bandiera bianca di fronte all’architettura di squadra sapientemente messa in piedi da coach Steve Kerr. Che ha avuto dai suoi ragazzi risposte molto positive anche, se non soprattutto, sul piano mentale: dopo gara 3, con Memphis avanti 2-1 e la potenziale perdita del fattore campo nella serie, i Warriors hanno probabilmente compiuto l’ultimo step che mancava sul percorso che porta una buona squadra a diventare una squadra da titolo. Hanno reagito vincendone tre in fila e dimostrando che per batterli servirà ben più di qualche granello di sabbia sparso qua e la in un ingranaggio che sta girando alla perfezione.
Per quanto riguarda Rnadolph e compagni, invece, non si può far altro che alzarsi in piedi, applaudire e ringraziare per lo spettacolo che hanno offerto nell’ultimo lustro. Molti dei protagonisti di questa squadra sono in partenza ed è probabile che la franchigia debba affrontare a breve un non facile percorso di ristrutturazione. Ma se questa è stata l’ultima pagina del libro, il finale è stato assolutamente all’altezza: si può fare grande pallacanestro anche senza partire con le attenzioni dei media e i favori del pronostico. Anzi, soprattutto in quel caso.
MEMPHIS GRIZZLIES:
TOP
Tony Allen: Alzi la mano chi al “First Team all defense” di gara 2 non ha pensato, anche solo per un attimo, “Sta a vedere che questi ce la fanno”. La presenza difensiva del nativo di Chicago è stata semplicemente impressionante. Un fattore senza se e senza ma capace di far salire di livello le prestazioni dei compagni anche solo con la sua presenza in campo. Non è un caso che i Grizzlies si siano sciolti quando, a causa di qualche problema fisico di troppo, il numero 9 non è riuscito a garantire il suo solito apporto di qualità e quantità.
Mike Conley: come all’epoca si faceva quando si giudicavano le prestazioni di Billups, le statistiche e i numeri sono l’ultima cosa da cui partire. Conta il carattere, il carisma che hai, la capacità di andare oltre i tuoi limiti. E ‘Iron Mike’ ha dimostrato di appartenere a questi contesti: mai un passo indietro, mai un’esitazione contro Curry & co. E pazienza se è stato parzialmente limitato dall’infortunio allo zigomo: quella maschera, probabilmente, gli ha fornito un’ulteriore iniezione nelle sue già mostruose capacità. Torneremo a sentirne parlare, potete scommetterci.
Marc Gasol: defitinivamente affrancatosi dalla fastidiosa etichetta del ‘fratello di’, il catalano si è confermato come un autentico cattedratico dell’arte del gioco in post. Ha abusato di Bogut come e quando ha voluto, dimostrando di essere pronto per il definitivo salto di qualità. Che, probabilmente, avverrà altrove alla ricerca di qualcosa di più di un’onorevole eliminazione al secondo turno dei playoff.
FLOP
Zach Randolph: devastante a cavallo di gara 2 e 3 quando i Warriors non sapevano letteralmente da che parte girarsi, abulico quando si è trattato di dare la definitiva spallata in gara 4. Poi, un lento ma inesorabile declinare sulla via della normalità, incapace di opporre la sua solita, efficacissima, resistenza quando i figli della Baia hanno cominciato a tracimare. Detto che il piede perno rimane una delle cose più belle che abbiano mai illuminato un parquet Nba, probbailmente l’età e qualche acciacco di troppo cominciano a farsi sentire anche per lui.
Vince Carter: a proposito di età e di acciacchi. L’exploit di gara 6 (16 punti) somigliava tanto all’ultimo ruggito del vecchio leone che sa di dover lasciare il campo a quelli più giovani di lui, ma non intende farlo senza combattere. Proposito lodevole che, però, cozza con la triste realtà che parla di un giocatore che non è più in grado di fornire un apporto accettabuile sui due lati del campo per più di 5-6 minuti a gara. Un affronto per tutto ciò che è stato e continuerà ad essere nel cuore degli appassionati. Anche per lui probabile si sia trattata dell’ultima recita in maglia Grizzlies.
GOLDEN STATE WARRIORS:
TOP
Stephen Curry: d’accordo non avrà espresso la sua migliore pallacanestro e, con Bogut, è stato quello messo maggiormente in difficoltà nelle due partite vinte da Memphis. Ma, alla fine della fiera, le giocate che hanno deciso gara 5 e gara 6, quelle che mandano Golden State alla finale di conference, sono le sue. I campioni sono quelli che decidono le partite che contano: e anche a sto giro Steph l’ha fatto, seppur al netto di qualche passaggio a vuoto. Stando ai freddi numeri lo score delle ultime 5 partite recita: 25 punti, 6.4 assist e 5.6 rimbalzi di media. Per i processi di prega di rimandare.
Andre Iguodala: l’eroe per caso di gara 5, quello che ti ribalta come un calzino una situazione che si stava facendo particolarmente critica. Coniuga la consueta presenza difensiva a un’inaspettata (e benedetta) efficacia offensiva che supplisce egregiamente alle saltuarie mancanze degli ‘Spalsh Brothers’. Vero ago della bilancia della serie, lavora in silenzio e si fa trovare pronto. Come solo i grandissimi sanno fare.
FLOP
Andrew Bogut: ha tutta la nostra umana comprensione. Non solo si trova in mezzo ad un sistema di gioco che, offensivamente parlando, lo coinvolge relativamente ma, dall’altra parte del campo, è costretto a fare i conti, praticamente da solo, con due principi del pitturato come Randolph e Gasol. E, purtroppo, gli errori e le mancanze nella tua metà campo sono quelle che si notano di più. Vero è che, questa volta, Barnes e Green si dimenticano di aiutarlo evitando, chissà per quale motivo, il raddoppio sistematiche sui due maestri del post. Coraggio Andrew: da qui in avanti si può solo migliorare.
Harrison Barnes: come il ‘gemello’ Green ha l’attenuante dell’apporto in termini di punti e presenza in attacco (rispettivamente 13.2 e 11.8 punti di media nelle ultime 5 partite). Ma è corresponsabile, con Bogut, dei disastri difensivi di gara 2 e gara 3, si dimostra meno padrone della situazione di altre volte. ed è un peccato perché i Warriors girano al massimo se gira anche lui. E se si vuole arrivare a quella terra promessa chiamata Finals bisogna sempre andare al massimo. E, a volte, anche oltre.