Glory Road #8 - Fear The Beard
Esiste un uomo, consideratelo mitologico o meno, che ha segnato l’ideologia di eroe. L’eroe che sovrasta tutti, ma che alla fine, inevitabilmente, esce sconfitto. La storia è quella di Sansone, il protagonista è James Harden.
You’ll play basketball my way. My way is hard
Il paragone più ovvio è quello dei peli corporei, ovviamente. Per Sansone erano i capelli e (chi l’avrebbe mai detto) per Harden è la barba. In quanti crederanno che la lunghezza quasi da rabbino della barba di James incida realmente sulle sue prestazioni? Eppure la guardia di L.A. è sempre stato in grado di aumentare regolarmente i suoi numeri, arrivando alla stagione attuale, in cui viaggia con 27.4 punti, 6.8 assist e 5.7 rimbalzi di media a partita. Numeri da..? Diciamolo alla fine.
Facciamo prima un passo indietro, il sole cocente di Houston può attendere. Torniamo ad OKC, dove risiede la prima franchigia ad aver dato fiducia a The Beard. Tre anni per lui con Durant e Westbrook, tra giovani aspirazioni e ingenua fiducia. Già perché se dicessi ad un novello fan dell’NBA che l’attuale numero 13 dei Rockets non riusciva a trovare un posto in quintetto, mi darebbe del folle. Sedotto e tradito, un po’ come Sansone con la prima moglie, che inevitabilmente finì al rogo. Vincere il premio come sesto uomo e le finali di Conference non sazieranno mai un uomo così. Entrare nella storia da leader delle seconde linee non appaga il desiderio di gloria.
E allora perché non diventare la stella più luminosa di un’altra franchigia, che magari nella stella solitaria risiede già. Harden diventa il primo giudice (non fatevi spiegare ogni riferimento) degli Houston Rockets, ormai privi dei campioni e del fascino del passato, che attraverso le sue mani mettono le solide basi per tornare protagonisti. Prima Howard, poi Terry, Ariza, infine Brewer e Smith ed ecco che in due anni e mezzo i Razzi possono dire la loro per la vittoria dell’anello.
Eppure non dominano. Non dominano un po’ per la grande folla di campioni che troviamo ad Ovest e un po’ perché la costanza non sanno nemmeno dove abita. Si alternano grandi vittorie a cadute clamorose (Detroit vi dice qualcosa?), con il solo James a confermarsi sempre più dominatore della lega, spesso abbandonato a se stesso dall’amico Dwight, troppe volte assente quest’anno.
Per loro fortuna nella Western Conference ci sono praticamente 8 contender, e il posizionamento conta infine solo per il fattore campo. Ogni serie sarà una finale anticipata, e The Beard deve prepararsi a combattere fino all’ultimo residuo di talento.
Ora possiamo dirlo, senza rammarico: i numeri di Harden sono da MVP. Poco da discutere, soprattutto per chi lo vede giocare e sa come arrivano quei punti. Geniali, innovativi e alle volte davvero troppo folli. Se potesse portare palla dalla sua area e fare 25 tiri insensati alla 3-Point Challenge di sabato avremmo già un vincitore, mentre domenica potrebbe consacrarsi dominando, magari, anche all’All Star Game.
E se non vincesse nulla quest’anno? Tagliategli la Barba e cavategli gli occhi. Vincerebbe anello e titolo di MVP, prima di urlare “Muoia James Harden e tutta l’NBA!”.
You wanna quit? You quit right now, you’ll quit every day for the rest of your life.