Glory Road #3 - It's a bird...it's a plane
You’ll play basketball my way. My way is hard
C’era una volta un alieno, venuto da Krypton e travestitosi alla perfezione da nerd per tutta la vita. Comprendendo le sue enormi capacità le aveva messe a disposizione dell’umanità per quasi cinquant’anni, sventando l’estinzione della razza svariate volte. Capacitandosi però che non si può vivere di soli ringraziamenti, ecco che l’eroe decise di cambiare colore della pelle, spogliarsi della tuta aderente, delle mutande rosse in bella vista e di trasferirsi in Florida, più precisamente ad Orlando. Questa è la maxi storia di com’è nato Dwight Howard.
Tralasciando i facili paragoni con Clark Kent, Howard si è davvero inserito di diritto tra i centri più dominanti degli ultimi dieci anni. Il problema più ovvio? Dov’è che ha nascosto gli anelli taglia XXL? Naturalmente non ci sono.
Eppure nel corso della carriera ci è andato molto vicino, quando chiamarlo Superman era un must da cui i fan della palla a spicchi non potevano esimersi.
Il periodo alla corte dei Magic gli ha sicuramente ritagliato un piccolo posto nella storia e se il primo anno in cui la franchigia si era candidata come pretendente al titolo Howard era riuscito a fare un 20+20 in 3 gare contro i Raptors, l’hanno dopo ha davvero sfiorato titolo e MVP.
Ma come puoi permetterti anche solo di valutare l’idea di eliminare prima i Big Three di Boston, poi il King di Cleveland e presentarti ai piedi di Kobe? Quando il Mamba vuole mangiarti, rannicchiati e aspetta il morso.
La verità è che non si batte un’intera lega da soli, e Howard ne era consapevole. E allora perché non preferire le coste losangeline a quelle della Florida? D’altronde c’era un certo numero 24 (leggere sopra) ad aspettarlo, per ricreare una coppia che con Shaq come interprete aveva dominato per anni la scena. Forse però c’era qualcuno che non aveva la fame giusta per vincere, e forse non è quello verso cui la critica ha puntato il dito. Opinione completamente personale, ma se l’alchimia non è stata trovata non può essere solo colpa di chi in realtà aveva tutti i motivi per pretenderla, un po’ come Superman e la kryptonite (niente, non riesco proprio a evitarvele).
Niente titolo, niente fiducia e progetto fallimentare. Los Angeles, sponda Lakers, non era poi così confortevole, bisognava trovare una nuova destinazione.
Nel frattempo, l’anno prima precisamente, in una cittadina nel Texas (che poi tanto cittadina non è), un piccolo uomo barbuto fresco del premio di sesto uomo dell’anno, aveva deciso di dimostrare al mondo del basket che non potevano continuare a considerarlo solo un’ottima riserva. Non ci sono dubbi, se l’obiettivo è puntare su talenti che voglio rilanciarsi e dimostrare di essere dominanti, allora non c’è scelta più adatta per Howard.
Parliamoci chiaro, l’anno di debutto della coppia non poteva che essere di transizione. E nonostante si sia infine confermato tale, i sentori che i due faranno faville li abbiamo avuti. Al centro serve un coprotagonista carismatico che gli permetta “solo” di fare punti, e Il Barba ha già dimostrato di corrispondere all’identikit. Magari io avrei evitato la nemmeno tanto clamorosa debacle contro Lillard e Aldridge, ma consideriamole formalità. Ciò che resta è la ottima regular season che hanno messo in piedi, è quello il punto cardine da cui ripartire.
E devo dire che la coppia, affiancata da un terzo violinista che risponde al nome di Trevor Ariza, non sta deludendo le aspettative. In attesa del match di stanotte contro i modesti 76ers, Houston si ritrova tra le mani un record di 7-1 che non può che lasciare soddisfatti i tifosi. Howard, forse anche più di Harden, è cresciuto tantissimo, soprattutto psicologicamente. È tornato a vestire i panni di leader che aveva in quel di Orlando, senza però doversi addossare il peso del portare avanti in solitaria la squadra. Se poi ogni settimana si allena con due mostri sacri dell’attacco sotto canestro quali erano il suo coach McHale e un certo Hakeem Abdul Olajuwon, ecco qualcosa di straordinario si sta plasmando. Chissà che i texani non rischino di riveder trionfare i loro idoli, appena vent’anni dopo l’impresa di The Dream e Clyde Drexler.
You wanna quit? You quit right now, you’ll quit every day for the rest of your life.