Get J-RICH or die tryin’
Cosa hanno realmente in comune Marcus Greer e Jason Richardson? Apparentemente poco o forse nulla. Marcus è il protagonista del film del 2005 Get Rich or Die Tryin’ di Jim Sheridan, pellicola che si basa sulla vera storia dell’attore protagonista Curtis James Jackson III, probabilmente più conosciuto come 50 Cent. La trama è avvincente e a tratti crudele, piena di valori, in fondo reale, di quella realtà difficile di chi vuole emergere e fa di tutto per mettersi in mostra e inseguire un sogno. Jason quel sogno l’ha inseguito, l’ha raggiunto, l’ha realizzato, un po’ come Marcus. Ma le similitudini non si fermano qui. Entrambe le nostre storie, che spesso si intrecceranno, sono ambientate nei primissimi anni del secondo millennio, quando nel mondo spopola il rap americano, quello di protesta, di denuncia, quello che non lascia scampo a istituzioni o problemi della società post-moderna, e quando il nostro Jason compie il salto che gli spetta, ovvero sia quello da junior a giocatore professionista. Prima di arrivare ai primi del 2000, facciamo un tuffo nella “earlier life” di JR. Nasce nel 1981 a Saginaw, in Michigan, non proprio la più nota città degli States. Eppure ha dato i natali a tale Steveland Hardaway Judkins, più noto come Stevie Wonder, una delle più celebri leggende musicali viventi e in quello stesso 1981 anche a Serena Williams, tendenzialmente un’altra icona dello sport americano. 9 anni più tardi, nello stesso luogo nascerà Draymond Jamal Green, il “Dancing Bear” dei Golden State Warriors. Il nostro Jason si laurea ad Arthur Hill High School nel 1999. Non ha mai avuto nulla in testa al di fuori della pallacanestro e in quei primi anni catechizza ogni avversario, portando la sua squadra al Class A championship game. Se sei nato in Michigan e sei nominato dopo gli anni di Arthur Hill “Mr. Basketball of Michigan” hai una sola cosa nel destino: gli Spartans della Michigan State Uuniversity. L’impatto con il contesto universitario non è definibile come “esaltante”: ha una media di 5.1 punti a partita in 37 partite ma conclude la stagione da freshman con un buon 50.3% dal campo. Indipendentemente dall’apporto di Jason, il gruppo è coeso, pieno di punti di forza e con tanta voglia di vincere. Infatti, isieme a Aloysius Anagonye, Adam Ballinger, Steve Cherry,Mike Chappell, A.J. Granger, Charlie Bell, Andre Hutson, Mat Ishbia, Brandon Smith, David Thomas e soprattutto Morris Peterson e Mateen Cleaves, gli Spartans sono campioni NCAA per il 1999-2000! Ambientatosi meglio in un contesto che non lo ha preso sul serio fin da l’inizio, nella stagione da sophomore arriva il vero grande salto di qualità: i 14.7 punti a partita garantiscono a MCU un’altra apparizione alle ambite Final Four. La squadra è sostanzialmente la stessa solo che al posto del miglior realizzatore dell’anno precedente, Morris Peterson, volato a far impazzire i cieli canadesi insieme a Vinsanity, è arrivato un freshman di cui forse si parla ancora dato il suo discreto futuro in NBA: Zachary McKenley Randolph, per gli amici Z-Bo. Altra grande cavalcata ma stavolta gli Spartans si fermano in semifinale, sconfitti dalla #2 Arizona di Luke Walton, Richard Jefferson e soprattutto Gilbert Arenas.
Tenete aperta l’icona su Gilberto, perché tornerà utile. Voci insistenti lo darebbero già al piano di sopra, tra i professionisti, e allora Jason decide di rendersi eleggibile al draft 2011. Ci siamo, il salto sta arrivando. A proposito di salto, non abbiamo ancora toccato il suo stile di gioco. Già che ci siamo, stiamoci dentro. Se dovessimo scegliere un animale che lo rappresenta, sarebbe senza ombra di dubbio una pantera perché armato di un’agilità e di un’elevazione che non compete a noi bipedi umani terrestri. Fa saltare qualsiasi area con una minima quantità di tritolo che ha in corpo, conservando i migliori colpi per un futuro nella stratosfera. Se non vi si è accesa una lampadina, state tranquilli, ci arriviamo. È il 27 giugno del 2001 e, così come Marcus Greer viene scelto per entrare a far parte di una crew malavitosa, Jason Richardson in quel di NYC diventa un giocatore dei Golden State Warriors. È un draft particolare, un po’ per la prima chiamata, un po’ perché, col senno di poi, gli “steal of the draft” davvero si sprecano. Alla #1 i sagaci Washington Wizards scelgono Kwame Brown. PAUSA SCENICA avrebbe detto Alessandro Mamoli. Alla #2 i Bulls (via Clippers) scelgono Tyson Chandler, dato da tutti come prima scelta assoluta a quel draft. Alla #3 arriva un catalano che farà innamorare milioni e milioni di persone prima a Memphis, poi a LA ed ora a Chicago: Pau Gasol. I Bulls ancora alla #4 puntano su Eddy Curry, l’uomo “che doveva spostare le montagne” a detta dell’avvocato Buffa ma che invece ha spostato ben poco. Alla #5 arriva il nostro Jason, alla #6 gli allora Vancouver Grizzlies optano per Shane Battier da Duke, Eddie Griffin a Houston con la settima scelta, alla #8 arriva il senegalese Diop che vola in Ohio, con la nona i Pistons scelgono Rodney White e alla #10 i Celtics mettono le mani su un promettente Joe Johnson. Questa la top10 ma i veri assi arrivano, come detto, quasi tutti dopo la metà del primo giro. Alla #13 troviamo Richard Jefferson, che aveva battuta Jason alle Final Four, alla #17 spunta fuori in direzione Toronto un certo Michael Beasley, alla #19, con un anno di anticipo, arriva Z-Bo, compagno di squadra di JR e all’epoca membro ufficiale dei Portland JAIL Blazers, alla ventisettesima c’è un mago con la palla in mano come Jamaal Tisley, alla 28 un omino piccolo dal Paris Basket Racing, un francesino che risponde al nome di Tony Parker. Per concludere: alla #34 c’è l’idolo indiscusso delle folle, Brian Scalabrine, scelto dai Nets, ma soprattutto, otto posizioni prima c’è Gilbert Jay Arenas, scelto dai Golden State Warriors. Bisogna essere onesti: i Golden State Warriors dell’epoca sono l’esatto opposto di quelli che vediamo ora esultare ed esaltare il concetto del Gioco. In quegli anni le stagioni erano al limite del disastroso, con i playoff che assomigliavano molto ad un vero e proprio miraggio. Ma la voglia della coppia ex Spartans è troppa per non poter avere un impatto forte con la Lega. Il roster dei Guerrieri nella stagione da rookie di Richardson è il seguente: Gilbert Arenas, Mookie Blaylock, Erick Dampier, Danny Fortson (faro offensivo della squadra), Adonal Foyle, Dean Garrett, Cedric Henderson, Mark Jackson, Larry Hughes (al suo terzo anno, ancora acerbo ma sempre un finissimo realizzatore), Chris Mills, Troy Murphy, Dean Oliver, Bon Sura ma soprattutto Antawn Jamison. Contrariamente a quanto era successo a Michigan State, la stagione 2001-2002 è assai deludente e molto confusionaria: dopo appena 23 partite (8-15) coach Dave Cowens viene licenziato e al suo posto subentra il vice Brian Winters che concluderà la stagione con un disastroso 13-46 e il penultimo peggior record della Lega (21-61). La stagione personale di Jason Richardson, però, è più che esaltante per essere un rookie: in 80 partite giocate, di cui 75 da titolare, gioca una media di 32.9 minuti a gara, tirando con il 42.6% da 2 e il 33.3% da 3, catturando 4.3 rimbalzi a sera, distribuendo 3 assist e rubando 1.3 palloni a sera, il tutto con 14.4 punti ad allacciata di scarpette. Abbiamo assistito a matricole che al primo anno hanno fatto assai peggio. Se da un lato, sportivamente parlando, il 2002 andrebbe cancellato per i suoi Warriors, dal punto di vista personale colui che viene ormai chiamato da tutti J-Rich incornicia quell’anno sulla miglior parete di casa. Il poster? Molto semplice da spiegare, davvero complesso da realizzare. Abbiamo parlato in precedenza delle doti fisiche/atletiche di Jason e non c’è miglior palcoscenico migliore dell’All Star Weekend. Qui occorre fare un passo indietro, anche per capire meglio le gesta di Jason. Voliamo indietro di 2 anni e soprattutto andiamo ad Oakland, CA. E’ il 2000 e se pensate al nuovo millennio e siete malati come noi di pallacanestro, non potete non pensare ad uno dei concorsi di schiacciate più bello che si sia mai visto: T-Mac, Ricky Davis, Larry Hughes (contorno), Jerry Stackhouse, Steve Francise e Vinsanity o Air Canada o Half-Man, Half-Amazing. Fate voi, in ogni modo c’era Vince Carter, dominatore dei cieli NBA dell’intera decade. È eccessivamente riduttivo dire ce le sue schiacciate, quella sera, hanno alzato (e non di poco) l’asticella del concorso più spettacolare dell’ASW. Qualcosa di sconosciuto fino ad ora, qualcosa che si fa fatica anche solo a pensarlo, eppure Vince è lì, in aria, che veleggia come nessuno aveva fatto prima. Due anni dopo ci trasferiamo a Philadelphia. Già dal venerdì, J-Rich ha la chance di mettersi in mostra e come sempre non la lascia andar via. Rookie game, con lui in squadra gran parte dei giocatori del draft 2001 ma è lui il miglior marcatore con 26 punti in 22 minuti. Ha giocato, però, non inserendo le marce migliori, risparmiandole per il giorno seguente. Allo stesso concorso stravinto da Carter due anni prima, partecipano Gerald Wallace, Steve Francise, Desmond Mason (suo acerrimo rivale in termini di spettacolarità) e Jason Richardson. L’inserimento della “ruota della fortuna” riadattata per lo Slam Dunk Contest, in modo da non scegliere direttamente il tipo di volo ma affidandosi completamente al caso, è decisivo ma le schiacciate non possono essere spiegate, meglio gustarsele.
In finale c’è Gerald Wallace ma non c’è storia. Prima con il remake della magia che rese celebre Dominique Wilkins, poi la combinata con il suo compagno di merende Gilbert e per concludere la wildmill rovesciata, impresa riuscita a pochi eletti. Caro Gerald, ritenta e sarai più fortunato. Il miglior schiacciatore del 2002 è Jason Richardson dai Golden State Warriors. Come da consuetudine, l’anno dopo il campione è chiamato a difendersi. Cambia location, passando da Phila ad Atlanta, ma le routine del weekend più spettacolare della Lega non cambiano. Il venerdì Jason passa a vestire la maglia dei sophomore (i giocatori al secondo anno, NdR) ma la storia non cambia: ne scrive 31 in 30 minuti, sostanzialmente dividendosi il palcoscenico ancora con Gilbert Arenas che segnerà un punto in meno ma tornerà a casa con l’MVP di quella partita. Premio o non premio, 61 punti in 2 e il nome dei Warriors vola alto anche in Georgia. Mancano pochi secondi alla fine del match, che per la seconda volta consecutiva viene vinto dalla squadra in cui gioca Jason, e succede quello che non ti aspetti. Se esiste una forma di sfogo dei rookie dopo tutte le miserie inflitte loro nell’anno da matricola quello è la partita del venerdì, stando dalla parte dei sophomore. J-Rich è in isolamento con Carlos Boozer e lo irride con una giocata da campetto, ovvero sia facendogli sbattere la palla sulla fronte per poi riaverla tra le mani una frazione di secondo dopo (per delucidazioni: https://www.youtube.com/watch?v=MoEJ8qwdxeA). Momento CULT da quel momento in poi del rookie game. Si passa al sabato e la gara delle schiacciate vede protagonisti diversi, eccetto due: ci sono sempre J-Rich e Desmond Mason, autore di una stagione ai limiti della legalità con i Seattle SuperSonics, ma anche il rookie Amar’e Stoudemire e un rivale storico di Richardson, ovvero sia Richard Jefferson, uno che in quegli anni sta letteralmente infiammando il New Jersey con Kidd e Martin. Finalissima con i due contenditori della stratosfera NBA, Mason vs Richardson. Le prime tre di J-Rich scivolano via quasi con indifferenza, nonostante i punteggi altissimi. La storia viene riscritta, l’asticella inizia ad alzarsi ancora di più con la quarta e ultima schiacciata del concorso. Ha bisogno di 49 per vincere dopo il 48 impressionante di Mason e serve l’impresa. Come i precedenza, non commentiamo noi, lasciamo a voi il video per cercare di farvi capire che diavolo di atleta e schiacciatore è stato Jason Richardson dal Michigan (https://www.youtube.com/watch?v=aUT143gfbvU).
Mostra con aria assai fiera il “NASTY! Che ha tatuato sull’avambraccio sinistro. Forse p l’unico aggettivo che possiamo usare per descrivere i due concorsi di schiacciate vinti consecutivamente dal nostro protagonista. Anche MJ, presente in giuria e a palazzo, si alza in piedi per applaudire un giovane ragazzo che ha il suo stesso numero e che, forse, ha le sue stesse doti da schiacciatore inumano. Chiamato ancora una volta a difendersi nell’edizione 2004, in quel di Los Angeles, per la prima volta al di fuori della RS capisce quanto è dura la vita delle superstar. In finale, stavolta, va con tale Fred Jones degli Indiana Pacers, dopo aver battuto la concorrenza di Ricky Davis e di Birdman. Il duello non è esattamente esaltante: tanti errori, sia per Jason che per Jones, ma dopo una inimmaginabile prima schiacciata di J-Rich viene premiata l’idea dell’ala dei Pacers di far diventare un fortunato spettatore in prima fila un assistman decisivo. Palla tra il pubblico, alley-oop schiacciato a terra e schiacciata (non riuscita) del futuro campione dello Slam Dunk Contest. I duelli con Mason continuano in regular season ma il più delle volte i Warriors escono sconfitti: la stagione 2002-2003 termina ancora una volta ad aprile, con il 20esimo record NBA che non consente alla squadra di Jamison, Arenas, Richardson e Dampier di qualificarsi per la post-season. I numeri di J-Rich restano positivi (15.6 a sera) e comincia a completare il suo gioco anche con il tiro da 3 punti, le cui percentuali sono in netta crescita. Nelle stagioni successive lo spettacolo nella Baia, quello viene assicurato anche da innesti nuovi come Avery Johnson, NicK Van Exel, Baron Davis, Derek Fisher, ma la squadra manca puntualmente l’appuntamento con i PO. Fu scelto come capitano nel lontano 2003 e la sua dedizione, la sua estrema spettacolarità ma anche la sua maturità etica gli hanno permesso di accrescere la popolarità che gli spetta. Assolve il ruolo di leader nel migliore dei modi, soprattutto nelle difficoltà. Nel 2005, dopo l’ennesima stagione di alti e bassi e senza playoff, Richardson decide di scrivere una lettera di scuse rivolta a tutti i tifosi dei Warriors.
Questa lettera scatenò molte reazioni, viste le assenza di firme di coach, presidente e GM. Questo dimostra quanto i giocatori di quei Warriors fossero uniti, al di là delle difficoltà della gestione tecnica e manageriale. La stampa ci andò giù dura contro la dirigenza, chiamandoli addirittura “pagliacci” e ammettendo che i giocatori (ed in particolare Richardson) non avevano proprio nulla di cui scusarsi perché hanno sempre dato il massimo. La risposta, dopo il bel gesto di capitan Richardson, arrivo all’unisono: “You have to love the man for well, showing Warriors Nation some love” e questo ci fa capire quanto importante fosse diventato l’ex Spartans. Forse arriva la scossa giusta dopo quel gesto e dopo 12 anni senza post-season, nella stagione 2006-2007 arrivano i playoff! È una squadra straordinaria, sotto tutti i punti di vista: c’è J-Rich, c’è Baron Davis, c’è un giovane Monta Ellis, c’è Sarunas Jasikevicius, c’è Stephen Jackson, c’è Al Harrington, c’è Matt Barnes e soprattutto c’è Don Nelson in panchina. Tutti i presupposti per arrivare fino in fondo ci sono. Essendosi qualificati come ottavi, incrociano subito la prima della Western Conference, ovvero sia i Dallas Mavericks: si chiude in 6 gare, ma per i Warriors! Serie incredibile che manda in semifinale i più inaspettati del tabellone della post-season. Ci sono i Jazz da affrontare, ancora una volta col fattore campo a sfavore. Troppo per gli eroi della Baia, la serie finisce 4-1 e l’unica gioia è quella di Baron Davis che infiamma l’arena regalando un poster indimenticabile a Andrei Kirilenko. Si cambia aria dopo 6 lunghissime e difficilissime stagioni: si va prima a Charlotte nel 2008 e poi si vola in Arizona, a Phoenix dove J-Rich vive una seconda giovinezza al fianco del duo Nash-Stoudemire. Anche i Suns, però, non vedevano la scritta “Playoff” stampata sul parquet da un bel po’ e anche in questo caso Richardson aiuta Phoenix a riscoprirla. Nella esaltante stagione 2009-2010 arriva in finale contro i Lakers, in una serie che è e resterà “for the ages”. Dopo l’incredibile sweep rifilato agli Spurs, dove lo zampino di Jason si vede e come, arriva però la sconfitta in finale contro Kobe e Pau, regalando ai californiani il Repeat. Lascia il deserto arido e si dirige in Florida, ai Magic ma i problemi fisici incalzano. 2 anni ad Orlando, poi 3 a Philadelphia, la stessa città che gli permise realmente di spiccare il volo. Vorrebbe continuare a lottare per qualcosa di ambizioso e il 18 agosto del corrente anno firma con gli Atlanta Hawks, in cerca di un leader veterano come J-Rich. Il problema al ginocchio, però, lo perseguita ancora e, così, 2 giorni fa ha ufficialmente dichiarato di volersi ritirare dalla pallacanestro giocata. Jason è rimasto cinque ore da solo martedì in un parco ad Atlanta, quella che doveva essere la sua nuova casa, a contemplare il futuro della sua carriera NBA. Dopo quelle 5 ore, ha deciso: meglio smettere. Dopo 14 logoranti stagioni, chiuse ad una media di 17.1 punti a partita, ha deciso di fermarsi, soprattutto a causa del ginocchio sinistra, quello che lo tormenta ormai da anni. A 34 anni, davanti all’ennesimo referto dell’ennesima risonanza magnetica, ha scoperto degli speroni ossei nel ginocchio. Da lì in poi il buio. Non ha parlato più con nessuno se non con sua moglie Jackie. Il dado è tratto e le motivazioni sono ovvie. Sono le stesse che ripete in una intervista telefonica a Yahoo Sport: “Non ho voglia di zoppicare il resto della mia vita. Ho ancora tutta la mia vita davanti a me, se Dio vorrà. Mi sono seduto da solo in un parco di Atlanta a pensare e nessuno mi ha detto nulla, perché non mi hanno riconosciuto. Ho parlato con mia moglie per un’ora al telefono e poi mi sono seduto per cinque ore a pensare e mentre ascoltavo musica ho deciso che andare in pensione era la cosa giusta da fare”.
Cosa resta di Jason Richardson? Tanto, il che se ne dica. Resta il titolo NCAA, restano i voli pindalici di un atleta straordinario, restano i titoli di MVP ai rookie game, restano i 2 titoli negli Slam Dunk Contest, resta il suo career high nel 2006 sul parquet dei Miami Heat, quando ne mise a segno 44 contro i 42 di D-Wade, resta quella finale persa contro i Lakers e resta quel passo in più da fare per entrare nell’olimpo dei migliori giocatori NBA. Smette di giocare un’icona dello spettacolo cestistico della prima decade degli anni 2000, smette un leader assoluto in campo e fuori, una persona sempre corretta e rispettosa, nonostante le costanti umiliazioni (sportive) che infliggeva a chi cercava in porsi tra il suo straordinario fisico e il canestro. Smette chi per primo ha sondato altitudini inesplorati, smette chi ha fatto sognare una generazione intera di schiacciatori. Vogliamo concludere con il saluto e i ringraziamenti di uno dei suoi migliori compagni di squadra, amico di tante battaglie. Gilbert Arenas su Instagram dedica queste parole a J-Rich: “Jason, my first NBA friend and teammate, when I was sitting on the bench, YOU believed in me when no one didn’t. You took me too All Star Weekend and I got a chance to experience that back to back dunk contest wins. You pushed me everyday in practice to get better. I want to thank you for what you did for me and congrats on leaving on our terms”. Si può diventare J-Rich (Get J-Rich) ma si può anche morire provandoci, perchè le imprese che ha raggiunto il nostro gladiatore in maglia Warriors sono solo degne di un vero eroe.