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Federico Buffa: "Golden State ha cambiato la cultura NBA"

In occasione di un incontro con studenti e appassionati, tenutosi presso l’Ateneo dell’Università degli Studi di Salerno, Federico Buffa è tornato a parlare di basket NBA tra passato, presente e futuro…


Raccontare storie di sport tende anche a significare strizzare l’occhio ad esistenze umane così diverse l’una dall’altra eppure sistematicamente accomunate da qualcosa di intangibile, speciale, magico e scintillante.

Le coordinate spaziali e temporali sono quanto mai differenti e talvolta si ha, persino, la sensazione di essersi smarriti nei meandri di una storia che diventa qualcosa di più di un mero resoconto fattuale.

Quello strano sentore, evidentemente creato ad hoc ed ex nihilo da un abilissimo alchimista, col passare inesorabile dei minuti diventa una vera e propria condizione dell’essere, in grado di elevare chi ascolta ad uno stato di grazia nei confronti del quale l’abbandonarsi è condizione necessaria e fondamentale.

Chi riesce a conquistare a tal punto l’attenzione del proprio uditore, in virtù di un semplice racconto di vita vissuta, ha evidentemente qualcosa di speciale dentro che non può essere celato a chi di quelle storie non smetterebbe mai di alimentarsi.

Federico Buffa è, senza dubbio alcuno, il maestro di questa straordinaria arte che può opportunamente essere definita storytelling.

“L’Avvocato”, nella serata di mercoledì 6 dicembre, è stato ospite presso il Teatro d’Ateneo dell’Università degli Studi di Salerno per una lectio magistralis con studenti del campus ed appassionati tout court dal titolo “…Raccontiamoci”.

L’evento – nell’ambito della rassegna artistica “dLivemedia”, promossa in collaborazione con il Servizio Placement di Ateneo – si è sviluppato ripercorrendo alcune delle vicende raccontate dallo storyteller milanese nel corso della sua collaborazione degli ultimi anni con Sky Sport.

A tener banco è stata la ben nota capacità affabulatoria di Buffa, che non si è limitato a discorrere di pallacanestro, ripercorrendo, anzi, nel corso della serata, le vicende legate all’indimenticato Arpad Weisz, calciatore e allenatore di origine ungherese e confessione ebraica, alla prima edizione dei Mondiali di Calcio del 1930, disputatasi in Uruguay e vinta proprio dalla “Celeste”, e allo sport nel territorio indiano.

Impossibile, d’altra parte, quando si è a tu per tu con Federico Buffa, non fare un salto alle origini e, dunque, a quel primo amore che non si scorda mai e che si chiama pallacanestro.

Al termine dell’evento, dunque, abbiamo avuto modo di scambiare qualche battuta con il protagonista di giornata del Campus di Salerno (nel tardo pomeriggio, Buffa aveva fatto visita al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi, Aurelio Tommasetti che, a sua volta, in mattinata, aveva ricevuto gli atleti della Scandone Avellino e dello Scafati Basket per una giornata tutta all’insegna della pallacanestro), approfondendo la situazione legata al basket NBA.

Riportiamo, di seguito, l’intervista rilasciata da Federico Buffa ai nostri microfoni.

L’intervista a Federico Buffa

Federico Buffa

Quali sono le ragioni per cui la pallacanestro è diventato il “tuo” sport? Dipende dal gioco in senso stretto, dalle personalità che essa riesce a tirar fuori o dal background culturale e sociale così profondamente legato al mondo a stelle e strisce?

«Non c’è un singolo sport più vicino ad una razza di quanto non lo sia il basket agli afroamericani. A ben vedere, quanti sono gli afroamericani? Meno di venti milioni? Quante cose nel mondo diventano realtà perché a loro è venuta voglia di…? Tantissime! Il loro è proprio un altro ritmo di esistenza. Se ti piace quel ritmo, allora ne vai in dipendenza.

Il soundtrack della NFL è country/rock, la colonna sonora della NBA è hip hop/ R&B. Sono due basi musicali diverse che appartengono a due Americhe differenti.

Il basket è ancora oggi fortissimo sulle due coste. E’ in qualche modo lo sport delle due zone più progressiste degli Stati Uniti d’America. Il football è lo sport di tutti ma è fortissimo al centro e soprattutto al sud, dove il basket fa fatica ad avere una franchigia professionistica. C’è n’è una a New Orleans e non naviga esattamente in ottime acque. Il Texas poi è, senza troppi giri di parole, una nazione a parte.

Il primo giocatore figlio di questo universo che ho potuto veder giocare dal vivo è Joe Isaac, che all’epoca giocava nella mia squadra del cuore, l’All’Onestà Milano, e che poi ha allenato anche in Italia. Lui veniva dalla stessa High School di Kareem Abdul Jabbar. Era un vero newyorkese e giocava in maniera fantastica. Dissi a mio padre che volevo veder giocare quelli come lui. E ricordo che lui mi portava a vedere gli spettacoli degli Harlem Globetrotters e c’era qualcosa di magico in ciò che facevano, qualcosa che mi conquistò dal primissimo momento. Volevo andarci tutti i giorni.

Questa fascinazione mi ha sempre accompagnato; non c’è uno sport così legato ad una razza come il basket e, se ti piace un certo modo di stare al mondo e di esprimerti, allora quello è il tuo gioco e non ti abbandona più.»

Qual’è stata la storia dedicata al mondo NBA più divertente e particolare che tu abbia mai raccontato e quale il personaggio più originale ed in grado di trasmettere emozioni tanto a te in quanto storyteller quanto al pubblico da casa?

«La storia di Wilt Chamberlain è sicuramente la più divertente che abbia mai raccontato. In realtà la sua storia ne contiene all’interno tante altre; sono tutte vicende di un autentico semidio. E’ persino impensabile poterle ritenere veritiere.

L’attuale regola dei tiri liberi, ad esempio, la si deve a lui dal momento che, essendo un atleta che a quindici anni saltava oltre due metri nel salto in alto e sette metri e mezzo nel salto in lungo, poteva schiacciare senza alcun problema dalla linea del tiro libero. Raccontare Chamberlain mi ha fatto venire in mente tante storie. Ad esempio, nel cinquantennale della Nba, Karl Malone gli chiese l’autografo e lui disse: “Karl, con la C o con la K?”

Un mito assoluto…»

Passiamo al basket dei giorni nostri. I Golden State Warriors rappresentano, secondo molti, un fenomeno di rottura rispetto alla pallacanestro tradizionalmente intesa prima della loro ascesa. Il tipo di cultura cestistica e non che sono stati in grado di creare è una sorta di “rivoluzione” rispetto al passato NBA?

Golden State ha cambiato la cultura dell’Nba, punto. Questa squadra è figlia della Silicon Valley e dello straordinario lavoro fatto attorno al club ed in seno alla cultura della franchigia stessa. E’ qualcosa di unico nella storia dello sport e non è un caso che tutto ciò sia accaduto a San Francisco.

L’anno prossimo apriranno l’arena nel centro della città, un impianto che sono certo sarà “state of the art”. Andranno a giocarci riportando una squadra estremamente diversa da quella delle origini. E’ qualcosa che lascia esterrefatti.

Hanno cambiato persino il pubblico di riferimento, cosa per me dolorosissima; erano i peggiori della NBA con 22.000 spettatori.

Ora continueranno ad averne altrettanti ma la metà di essi non conosce le regole del gioco, pur pagando dieci volte tanto per vedere la partita.»

Le novità dei Golden State Warriors si esprimono anche dal punto di vista tecnico e tattico oltreché gestionale, dirigenziale ed organizzativo…

Curry è, ad opinione comune, un giocatore assolutamente straordinario come Golden State una squadra assolutamente pazzesca. Abbiamo visto che, se in condizioni ottimali, è praticamente impossibile accoppiarsi difensivamente con loro.

E’ evidente che abbiano modificato le regole scritte e non di questo sport: un tempo si diceva di Mike D’Antoni che una sua squadra non avrebbe mai potuto vincere seguendo quel gameplan.

Loro sono una versione avanzata di quel modo di intendere ed interpretare la pallacanestro. Non è un caso che Steve Kerr sia stato il general manager di D’Antoni. Ci sono tanti particolari in virtù dei quali hanno costruito una squadra semi-irripetibile.

Se poi il sistema Nba è fallito e Durant, anziché andare a Boston o a Los Angeles, sceglie Golden State, allora diventa particolarmente complessa per gli altri.»

Parlando di talenti europei in orbita NBA è impossibile non menzionare Luka Doncic. In tanti hanno espresso giudizi lusinghieri su questo atleta che sta letteralmente dominando nel panorama continentale, lasciando tutti a bocca aperta per la semplicità con cui interpreta il gioco in ogni sua fase. Cosa pensi del suo ormai imminente approdo in NBA?

«Non saprei cosa dire perché non ho gli elementi per giudicarlo in un contesto NBA. Come per Teodosic, d’altra parte. Credo sia necessario dargli almeno un anno per capire che tipo di giocatore può essere dall’altra parte dell’Oceano.

Quello che è certo è che si tratta di un giocatore assolutamente di un altro pianeta per quanto riguarda il basket europeo ma sappiamo altrettanto bene che questo presupposto non è necessariamente viatico di affermazione nella pallacanestro professionistica a stelle e strisce.»

Ad Est, stiamo assistendo alla rinascita dei Cleveland Cavaliers, protagonisti di una striscia vincente di ben dodici successi consecutivi. E’ ancora la franchigia dell’Ohio l’unica reale contender dei Golden State Warriors?

«Hanno avuto parecchie difficoltà nella prima parte di stagione anche per quanto concerne problemi di chimica all’interno dello spogliatoio. Ora sembra che le cose stiano andando decisamente meglio e non solo per le dodici vittorie consecutive ottenute nell’ultimo periodo.

Vale sempre lo stesso discorso: finché hai LeBron James e giochi ad Est, di problemi non ce ne sono. Per quanto riguarda lo step successivo, è tutto più complesso allo stato attuale.»

Quali sono le tue considerazioni in merito alla situazione della Western Conference? E’ cambiato qualcosa rispetto agli scorsi anni oppure Durant e soci non avranno alcun problema ad arrivare fino in fondo?

«Ad Ovest devo dire che è tutto decisamente più divertente ed equilibrato rispetto agli anni passati, vista anche la buona prima parte di stagione degli Houston Rockets che, tuttavia, devono dimostrare continuità nel corso dell’annata e soprattutto nei momenti caldi che verranno.

Non sono convinto che ci sia una squadra in grado di battere gli Warriors su sette partite, tuttavia, gli infortuni, le pance piene e problemi vari possono cambiare la storia di una stagione.

Se, ad esempio, Curry si gira la caviglia in questo modo alla fine di maggio è tutta un’altra storia. Gli si è girata in una maniera tale che, a mio avviso, almeno sino all’inizio di gennaio non giocherà neppure lontanamente sui suoi standard.»

Torniamo alla Eastern Conference per un ultima domanda. L’offseason appena trascorsa ha fatto registrare l’approdo di Kyrie Irving in maglia Boston Celtics. La franchigia del Massachusetts è attualmente la prima forza ad Est nonché la squadra con il miglior record della lega. Credi che i Celtics siano effettivamente pronti per tornare protagonisti su palcoscenici importanti o è ancora troppo presto per il progetto di Danny Ainge?

«Boston è’ una squadra interessante, è stata molto sfortunata con l’infortunio di Gordon Hayward, giocatore che avrebbe dato una grossa mano tanto a Kyrie Irving quanto ai giocatori più giovani, perché avrebbe avuto una funzione di collante necessaria a migliorare la qualità di gioco dei ragazzi di coach Brad Stevens.

Mi piacerebbe tanto assistere ad una finale ad Est tra Boston e Cleveland, credo che sarebbe un grande spettacolo. I Cavaliers restano i favoriti perché, ribadisco, se hai LeBron James sei necessariamente favorito.

Ma Boston ha intrapreso la strada giusta e questa prima parte di stagione lo conferma.»

About The Author

Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone