Extra court leadership: DNR
Come può cambiare l’immagine di un giocatore, anzi del Giocatore, simbolo di una franchigia in una sola serie playoff? La storia di Paul George è molto più complessa di quanto sembri e probabilmente va oltre il mero aspetto tecnico, quello che i più possono vedere e mettere sotto una lente di ingrandimento. Uno degli errori più comuni che si possono commettere è quello di scindere sempre l’aspetto umano da quello globale, che inevitabilmente include tantissimi altro fattore di vario tipo. Il Gioco – decisamente con la G maiuscola – non è mai la somma delle singoli componenti che caratterizzano un giocatore, perché non è mai dalla semplice somma che si ottiene il totale. Guardare, dunque, un giocatore correttamente corrisponde a guardarlo integralmente, non tralasciando nulla, neanche l’aspetto che più sembra insignificante. Proviamo a sottoporre ad analisi scrupolosa il paziente Paul George, figlio di Paul Clifton Anthony George Sr. e della signora Paulette.
L’aspetto che prenderemo in considerazione con maggior attenzione è quello della leadership. PG13, già PG24, ha giocato una regular season altalenante, con picchi altissima ma anche con picchi decisamente bassi; nonostante tutto ha chiuso con cifre molto importanti: 23.7 punti (career high), 6.6 rimbalzi, 3.3 assist in quasi 36 minuti di media, tirando con il 39.4% da 3 punti, con il 46.1% dal campo e prendendosi più responsabilità (i 18 tiri di media a partita rappresentano il massimo in carriera). Numeri che, senza ombra di dubbio, hanno permesso ai Pacers di accedere ad una post-season quantomeno sfortunata in termini di accoppiamento. Fare di tutto per non arrivare ottavi e beccare al primo round i campioni in carica non deve essere stato il piano principale dell’ormai ex presidente Larry Bird. L’accoppiamento con una seconda del calibro di Celtics o Wizards sarebbe stato più congeniale ai giallo-blu ma non per questo la serie finisce ancor prima di iniziare. Anzi. Gara 1 racconta di una squadra che vuole giocarsi le sue carte, che vuole mettere in difficoltà una squadra che ha delle falle di sistema piuttosto evidenti e che non vuole alzare bandiera bianca prima di ogni palla a due. Il primo atto va ai Cavaliers ma con un brivido che terrorizza per circa 3 secondi (il tempo che il pallone scagliato verso il canestro da Miles si stampi sul ferro). Il “Cavs survive!” di Mike Breen dopo il tiro sbagliato da Miles non servirà a placare le tante polemiche che seguiranno tra interviste in sala stampa e negli spogliatoi.
Lo sfogo di Paul George, che in quella G1 segna 29 punti in 41 minuti, tirando 9/19 dal campo e 6/8 da 3, è diretto e rivolto all’intera organizzazione Pacers, rea di non aver scelto lui come giocatore designato all’ultimo tiro. Il roboante “In situations like that, I’ve got to get the last shot” inizia a scalfire quella che è stata, da sempre, la fiducia incondizionata che PG13 ha riposto nei suoi compagni e nei coach che si sono susseguiti in panchina. I piccoli scricchiolii all’interno dello spogliatoio vengono confermati anche dall’accusato più accusato di tutti, ovvero sia l’ex di turno CJ Miles, che risponde con un altrettanto pleonasmo “I’m one of the best shooters in our League“. Probabilmente i Pacers decidono di mettere già troppo pepe su una partita che sicuramente avrebbe cambiato la serie ma che sicuramente non dipende solo ed esclusivamente da quel tiro finale. La reazione, non solo verbale di George, come possiamo vedere dalla GIF di cui sopra, scatena un domino che può avere solo ed esclusivamente effetti negativi sulla squadra. Sentirsi fulcro centrale di un sistema offensivo è una responsabilità che andrebbe presa con la dovuta cautela e non con quella spocchia di chi alza la voce in questo modo. Le conseguenze, come detto, sono negative più sul morale che sulla squadra in sé. Anche in G2, infatti, i Pacers vendono carissima la pelle ma il 111-117 non lascia scampo ad equivoci. Nonostante arrivino altri 32 punti, con 8 rimbalzi e 7 assist, George e Indiana tornano a casa con due sconfitte sul groppone e il morale a pezzi, nonostante le buone cose fatte vedere sul parquet dei padroni di casa.
Prima di prendere la via di casa, però, George prova a rimediare all’infelice uscita da non-leader di uno spogliatoio e tira in ballo due compagni di squadra. Il primo coinvolto nei suoi discorsi è Lance Stephenson; su Born Ready, PG decide di esprimersi in questo modo: “Deve imparare a controllarsi e a saper scegliere il momento giusto. Lance, nel nostro spogliatoio, è considerato un leader: il suo linguaggio del corpo deve migliorare e deve migliorare solo ed esclusivamente per la squadra; tutti sappiamo che Lance è un ragazzo molto emotivo, che gioca con il cuore e fa della competitività la sua arma migliore. Ma le emozioni devono star fuori dal gioco, deve farle scorrere e deve dar spazio agli sforzi che il campo richiede“. Parole e musica che non ti aspetti di sentire dopo che, in poco più di due settimane all’interno di un gruppo totalmente nuovo, riesci a produrre 27 punti in 46 minuti di utilizzo. La scossa emotiva che ha dato Stephenson è stata a tratti fondamentale per rimanere a galla ma PG si sente in dovere di dover spronare ulteriormente il compagno di squadra. Di fronte abbiamo un diverso tipo di leader, forse il miglior emblema di leadership che la lega possa offrire. Seguendo il modello “LeBron James”, uscite del genere non sono ammissibili perché inchiodare un compagno ai propri limiti pubblicamente è una scelta che ha più chance di avere risvolti negativi che positivi.
Il secondo compagno di squadra che viene tirato in ballo è Myles Turner, il sophomore chiamato a salvare la patria insieme a PG13. Il compito di dover contenere un centro come Tristan Thompson non è affatto semplice ma George vuole di più: “Abbiamo solo bisogno di lui per poter sfidare e contrastare Tristan [Thompson], per tenerlo fuori dalla lotta a rimbalzo. Ha bisogno di rendersi disponibile in post basso. Deve essere consapevole che a questo punto deve costringerlo a fare qualcosa in più. Continueremo a lavorare con lui. Sono sempre stato la sua pulce nell’orecchio per cercarlo di far crescere, per fargli fare quel passo in più, ma in questo campionato deve trovarlo da solo il coraggio. È ancora giocane e lavoreremo con lui ancora“. Nonostante i 14.5 punti, i 7.3 rimbalzi e le 2 stoppate di media a partita, George vuole di più e sul 2-0 ci sono modi diversi per spronare i compagni anziché, come prima, inchiodarli ai propri limiti.
Nella storica G3, quella della rimonta dal -25, George si è dimostrato ancora una volta un leader dalle deficitarie capacità, soprattutto fuori dal campo, soprattutto attraverso un body language – lo stesso che rammentava a Stephenson – completamente diverso da quello tipico di un condottiero vero. Nonostante il vantaggio importante, i Pacers si sono fatti raggiungere e superare dallo stesso leader posto in antitesi rispetto a PG13. LeBron James ha avuto la capacità, circondato non dai titolari ma dalle sue seconde linee, di mettere in riga tutti e di prendersi le responsabilità nei momenti giusti. Ha saputo caricarsi tutti sulle spalle e allo stesso tempo ha saputo responsabilizzare tutti, coinvolgendoli e non criticandoli, facendoli sentire parte di un qualcosa di più grande e non consigliandogli sempre cosa fare. Naturalmente, parliamo di compagni di squadra assai diversi: non è corretto paragonare o mettere sullo stesso piano un Lance Stephenson con un Kyle Korver, un Jeff Teague con un Deron Williams e né tantomeno un Myles Turner con un Channing Frye. Piani di esperienze diversi, chilometraggi e situazioni vissuti molto più avanzati per i secondi citati. Sostanzialmente non potremmo neanche paragonare la leadership di un giocatore con il background di LBJ a quella di un giocatore dal talento infinito ma con limitate esperienze come Paul George ma utilizziamo il paragone per sottolineare come il successo, di qualsiasi tipo, passi soprattutto per crocevia come questi. Essere leader, essere il comandante della propria legione vuol dire essere responsabili di ogni azione che svolgono gli altri e, stando a quanto visto in questa serie tra Cavaliers e Pacers, possiamo affermare che Paul George non è ancora in grado di guidare i suoi uomini al successo.
Il futuro di George, anche sotto questo punto di vista, resta una grossa incognita. Larry Bird, presidente dimissionario della franchigia yellow-and-blue, vero ideatore del progetto costruito interamente attorno a PG13, ha mandato un segnale inequivocabile, lasciandolo trapelare tra le righe della sua decisione: “Il mio progetto è fallito ed è il momento che io vada via”. Il suo progetto, che come abbiamo detto ha un nome, un cognome ed un numero, è stato liberato da questa mossa inaspettata. Arrivano conferme anche dai suoi ex compagni di squadra come Danny Granger: “Basta guardarlo dopo aver perso con Cleveland e basta vedere la sua faccia e la sua tristezza, questo ragazzo vuole vincere! I soldi non fanno felici tutti, ma vincere, avere successo e vedere che il proprio talento riempie un vuoto che molti di questi giocatori hanno, sì. Quindi, ti dirò, non si può biasimarlo se lascia Indiana”. L’ammissione dell’ex Pacers spinge George in una direzione lontana da quella di Indianapolis e soprattutto lontana da quello che presumibilmente sarà il nuovo progetto Pacers. Come se non bastasse, l’estate del 2017 sarà caratterizzata da una free Agency di tutto rispetto, con FA del calibro di Paul Millsap, Carmelo Anthony, Blake Griffin e Chris Paul fino ad arrivare a Danilo Gallinari e Rudy Gay.
Il roboante commento di Granger ha scatenato i media americani che hanno immediatamente colto l’occasione per organizzare un primo toto-mercato per capire quale può essere la destinazione più congeniale per PG: Miami sembra essere una soluzione ragionevole ma allo stesso tempo le sirene di casa, ovvero sia quelle di LA, e quelle di Boston rappresentano le alternative migliori. Proprio su un possibile ritorno a casa, i media si sono sbizzarriti. La testimonianza più importante arriva in primis da George che, a serie finita, risponde alla domanda sul suo futuro con un gelido “I ain’t even at that point yet, Bob. Next question” [Non sono ancora a quel punto ancora, Bob. Prossima domanda].
Pacers' Paul George on whether he wants to stay in Indiana: "I ain't even at that point yet, Bob. Next question." pic.twitter.com/A85CPLtkVA
— Ben Golliver (@BenGolliver) April 23, 2017
Anche George, quindi, prende tempo, mentre Mitch Lawrence, voce e penna di Sporting News, sembra essere quasi sicuro: “Gli ormai ex compagni di squadra di George hanno sostanzialmente detto che più volte PG ha detto di voler giocare per i Lakers. Un nativo della South California non può che ambire a giocare dov’è nato. Non ne ha mai fatto un segreto, soprattutto nello spogliatoio dei Pacers. Vuole vestire la maglia purple-and-gold”.
Anche questo tipo di gestione, del resto, denota una totale assenza di leadership extra-court, quella che noi abbiamo definita DNR, Did Not Report.