STORIE DELL'ALTRO BASKET speciale The Underdog - Essere Magic dopo Magic
Siamo in Wisconsin, precisamente a Kenosha, a 20 km da Milwaukee e 30 km da Chicago. Siamo sulle sponde del Lago Michigan, il che rende il panorama estremamente godibile. Saranno famose le cartoline della città, i cui quartieri migliori vivono di un colore sempre forte, acceso, quegli stessi quartieri che hanno dato i natali a personalità come Orson Welles o Mark Ruffalo. Non ci occuperemo, come spesso capita nelle nostre storie, dei quartieri alti ma di quelli più inner, meno facoltosi e di gran lunga più popolari. È il 1971 e mentre per la prima volta l’uomo riesce a portare dispositivi di rilevazione su Marte, mentre nasce il primo Hard Rock Cafe a Londra, mentre il mondo piange la scomparsa di un’icona come Jim Morrison, papà Nickey e mamma Joyce danno vita a Nickey Maxwell, che presto verrà ribattezzato da tutti come Nick. Nick senior ha una grande passione, non troppo diffusa in quella specifica zona geografica: la pallacanestro. Giocherà fino all’high school nella CYC di Kenosha e, a detta dei testimoni oculari, spiegherà pallacanestro a chiunque si presenti in palestra. Il basketball gene viene trasmesso anche al piccolo che comincia a coltivare l’amore per la palla a spicchi. Le parole della madre fanno capire quanto il piccolo ci tenesse alla Gioco: “Era sempre fuori a giocare. Prendeva la palla e usciva”, ricorda Joyce. Il rapporto d’amore, nel senso più paternalistico del termine, tra Nick e Joyce è viscerale e tra poco capiremo perché. Il continuo girovagare per Kenosha (90.000 abitanti) fa conoscere in maniera precoce la realtà a Nick che, fin da piccolo, capisce che il contesto che lo circonda non è dei migliori. Come testimonierà nella puntata di Beyond The Glory dedicata a lui agli inizi del 2000, nei posti che frequentava era del tutto normale vedere un furto d’auto o semplicemente rompere un finestrino per rubare lo stereo di una radio. La disinvoltura con la quale ne parla ai microfoni fa capire che la cittadina del Wisconsin, che appare colorata e linda sulle rive del Lago Michigan, in realtà non è del tutto esente da rischi. In stile lebroniano la definisce “inner city” la Kenosha che lo ha visto crescere e parla di una “street criminal” all’ordine del giorno. Il problema non tocca direttamente Nick ma lo coinvolge dal punto di vista personale. Nel 1978, quando Nick jr. si appresta a compiere i 7 anni, papà Nick Sr. Viene arrestato e la famiglia Van Exel si trova in forte difficoltà. Mamma Joyce rimane scioccata dall’episodio (non isolato) ma ha sempre basato la sua vita su una grande etica del lavoro e, per tirare avanti, decide di aggiungere anche il turno di notte al suo già pesante lavoro. Lavora come operaia presso una sede distaccata della Chrysler, non proprio nei paraggi di casa. Il piccolo Nick è obbligato a stare da solo in casa per la maggior parte della sua infanzia e dovrà badare a sé per conto proprio, quasi come se dovesse allevarsi da solo. La mamma cerca di non fargli mancare nulla ma l’infanzia di Nick è comunque segnata da un’educazione monoparentale – tenete aperta l’icona perché vi tornerà utile. La figura paterna rimbalza dentro e fuori di prigione ma tutto ciò sembra non scuotere Nick che, per forza di cose, sembra un uomo maturo già all’età di 10 anni. Questa precoce maturazione, però, non si rivela tale nelle cose importanti della sua età: lo studio, ad esempio, viene sempre posto dopo le irrinunciabili scampettate con gli amici.
Lo studio, St. Joseph High School e i problemi sul futuro – Nick è venuto su in maniera molto particolare ma la vita prosegue per tutti. Arriva il momento dell’high school e si va sulla 69esima, nella zona meridionale di Kenosha. Alla voce “Notable Alumni” trovate solo 3 indirizzi: quello di Laura Marie Kaeppeler-Fleiss, ovvero sia Miss America 2012, quello di Jim Rygiel, il mago degli effetti speciali di film come Il signore degli anelli e Godzilla, e infine quello del nostro Nick. La storia, però, è lunga e per inserire il suo nome sotto quella voce dobbiamo arrivare alla fine della nostra storia. Si va, dunque, a St. Joseph High School, una scuola cattolica come ce ne sono tante nel Wisconsin. Nick entra a far parte dei Lancers, la squadra di pallacanestro dell’HS, sotto la guida del sui primo vero capo spirituale: coach Ray Knight. Oltre a capirne di pallacanestro, coach Knight è una guida per i suoi giocatori, li considera come suoi figlio da buon cattolico e questo passo è fondamentale per lo sviluppo adolescenziale e cestistico di Nick. Il problema è che, accanto alla pallacanestro, va obbligatoriamente abbinato lo studio. Se Nick leggesse queste parole si sentirebbe dal fondo della sala un grandissimo “NEXT!” perché il rapporto con i libri è molto più che conflittuale. I problemi non sono solo di studio ma anche di adattamento. Coach Knight utilizza l’espressione “a disagio in aula, a suo agio su un campo da gioco” il che rende perfettamente l’idea di chi fosse Nick Van Exel in quegli anni. Il disagio in aula a cui si fa riferimento coinvolge il giovane in prima persona: “I miei compagni di classe venivano in macchina, avevo carte di credito e ogni forme di diletto per la loro età. Io non avevo niente di tutto ciò e la differenza si sentiva”. Se i voti sono una grana nella carriera giovanile di Nick, le cifre che fa registrare sul parquet parlano da sole: ha giocato dal 1987 al 1989 a St. Joseph HS e ha segnato 1.282 punti, di cui 772 da senior. Nel WISE (il torneo di stato tra scuole private) è stato primo nella categoria di punti segnati – sia nell’anno da junior che in quello da senior – nonostante abbia perso entrambe le finali giocate. Il primo paradosso della vita di Nick arriva proprio ai tempi dell’HS: è cestisticamente un elemento da Division One, ovvero sia dove giocano i migliori college del Paese, ma i suoi voti (tendenzialmente bassi) gli consentivano o di fermarsi un anno per mettere la testa sui libri oppure di iscriversi in un “Junior” College per un paio d’anni dove avrebbe potuto giocare e allo stesso tempo migliorare il proprio rendimento scolastico. L’anno da solo studente corrispondeva ad una stagione senza pallacanestro e nella mente di Nick questa opzione non andava neanche formulata: scelse la seconda opzione.
L’esperienza traumatica del TVVC – Se cercate Trinity Valley Community College (TVVC), Texas, sulla mappa delle scuole che formato grandi talenti relativi alla pallacanestro troverete un solo risultato: Shawn Kemp (basta e avanza!). La religione principale non è la palla a spicchi ma la palla ovale e, non a casa, 11 giocatori di quel college ora sono professionisti in NFL. Si investe poco nel basketball e alle partite il pubblico scarseggia. Tutto questo prima dell’arrivo di Nick Van Exel. Nel suo anno da freshman viaggiò ad una media di 17.5 punti e 5.4 assist a sera, riuscendo a far ancor meglio l’anno successivo arrivando a 20.4 punti, 4.1 rimbalzi e 6.8 assist a partita. La sede è ad Athens, non quella che pensate vi. Siamo nella parte orientale del Texas e siamo alla fine degli anni ’80. Se i nostri studi storici ci assistono, in quel periodo per un ragazzo afroamericano non è facile convivere con chi ha un colore della pelle diverso dal tuo. Come l stesso Nick racconterà “Il TVVC è stato un vero shock culturale per me. Vengo dal Wisconsin ed era la mia prima vera esperienza lontano da casa, lontano da mia mamma e mi sembrava tutto così diverso. Penso sia stato intorno a Natale, durante il mio anno da freshman, quando chiamai mia mamma per dirle che ero pronto a tornare a casa”. Quello che non descrive, però, è la reazione della mamma al telefono. Qualsiasi mamma avrebbe riaccolto a casa il proprio figlio in difficoltà ma non Joyce, sempre lontana dalle convenzioni: “If you do you’re going to be just like a lot of these other good players in the area that’s going to be at home”. Queste parole risuonarono in maniera particolare nelle orecchie del giovane e, dopo un attimo di pausa, esclamò “OK, I’m going to stick it out”. Furono 2 le stagioni giocate al TVCC ma Nick, a distanza di tempo, allo stesso modo in cui narra la tenacia e il coraggio che mamma Joyce seppe tirargli fuori, descrive ancora quell’esperienza come il momento come la peggiore della sua vita. Le continue tensioni razziali tra i giocatori si facevano sempre più pesanti e, sebbene la pallacanestro riusciva a dare le giuste soddisfazioni, Nick non poté mai godersi appieno il tempo in Texas. L’unica soluzione? Lo studio. Sembra qualcosa di irreale ma anche uno dei playmaker più discussi dello Stato la vedeva così. I libri lo salvarono da quella spiacevole situazione, i voti migliorarono ed ecco arrivare la svolta: correva l’anno 1992 e l’Università di Cincinnati decide di dare una chance a Nick con una borsa di studio.
Gli anni di Cincinnati – Dal Wisconsin al Texas, dal Texas all’Ohio, direzione Cincinnati. L’università è importante, non è più il piccolo centro di Athens. Meno discriminazione razziale e un discreto interesse per la pallacanestro. Da Cincinnati, infatti, usciranno giocatori come Danny Fortson, DerMarr Johnson, Steve Logan, Jason Maxiell, Kenny Satterfield, Tom Thacker, Jack Twyman, Roland West, James White (visto anche in Italia) Connie Dierking, Ruben Patterson ma soprattutto Kenyon Martin (prima scelta al draft 2000) e Lance Stephenson. L’anno da junior di Nick è decisamente quello del passaggio da buon giocatore a gran giocatore. La squadra sulla carta non ha grandissimi nomi ma viene gestita in campo da Nick e in panchina da tale Bob Huggins, nominato head coach nel 1989. La personalità di Huggins, aggressiva e dura, si sposa perfettamente con l’educazione si è dovuta autoimporre Nick e il matrimonio di idee è presto fatto. Nell’anno da junior i Bearcats arrivano alle Final Four con una cavalcata memorabile, prima di arrendersi il 4 aprile del 1993 contro la Michigan dei Fab 5. Quella partita finì 76-72 con la doppia doppia di Webber (16+11), i soliti 12 di Juwan Howard e i 17 di Jimmy King, mentre per Cincinnati ci furono i 21 e 5 assist di Nick Van Exel, i 18 di Anthony Buford (attualmente al fresco con un debito allo Stato di oltre 2 milioni di dollari) e i 14 di Herb Jones, ex Avellino, Varese e Trieste. Non servirono, come le altre 4 partite vinte in quel torneo. Resta un dato piuttosto simbolico: prima dell’arrivo di Van Exel, i Bearcats avevano fatto registrare un discreto 18-12. Nel 1991-92, con Van Exel come point guard titolare da 12.3 punti e 2.9 assist a partita, i Bearcats arrivarono fino ad uno straordinario 29-5. La rivoluzione era appena iniziata. Nella stagione seguente, quella da senior, arrivarono 18.3 punti a sera, conditi da 4.5 capolavori che, se volete minimizzare, potete chiamare assist. La visione del mondo, così come del Gioco, di Van Exel è incredibile e la semplice esecuzione di un passaggio diventa spericolata. Nella seconda stagione il minutaggio cresce (da 24 a 33) ma nell’NCAA Elite Eight gli accoppiamenti vedono Cincinnati contro North Carolina. Il 28 marzo del 1993, Nick Van Exel gioca la sua ultima partita con la maglia di Cincinnati: 75-68 dopo un tempo supplementare per NCU con 21 di George Lynch (suo futuro compagno di squadra in NBA), 20 di Donald Williams e con in panchina un giovanissimo Dante Calabria. Per i Bearcats ci sono i soliti 23 di Van Exel. In soli due anni l’eredità di Van Exel in Ohio è pesante: 56-10 in due stagioni, leader per l’epoca di punti segnati, tentativi e percentuale dal campo. Già, tentativi. Una caratteristica del modo di giocare di Nick non è propriamente legata al concetto di “sport di squadra”: nonostante i capolavori che condivide con i compagni, l’ego e il talento di Nick lo portano a prendersi tiri anche quando c’è uno scarico facile. Uno degli aspetti da non sottovalutare dell’esperienza a Cincinnati di Van Exel è un episodio che arriva più o meno a cavallo tra le due stagioni, più in prossimità dell’inizio della seconda. Squilla il telefono, Nick risponde e un “Hello” stanco e quasi emozionato fa velocemente aumentare i battiti cardiaci al nostro. È papà Nick, col quale condivide il nome, che dice: “Sto venendo a Cincinnati. Voglio rivedere e ritrovare mio figlio”.
Il salto al piano di sopra di Van Exel da Van Exel – Siamo arrivati al 1993 e pochi mesi dopo la tripla di Paxon che vale il primo Treepeat Bulls, c’è l’NBA Draft. Prima della notte in cui si scelgono gli astri nascenti, vanno fatte un paio di precisazioni per i meno esperti: prima del draft ci si allena con le squadre interessate, poi si passa ai colloqui prima poi di andare a sedersi al tavolo in attesa di una chiamata. Il nostro Nick aveva diverse proposte ma non si presentò a tutti gli allenamenti: perse due voli di linee per raggiungere Charlotte e parlare con gli Hornets (giustificando il primo episodio con la data di partenza stampata male sul biglietto mentre il secondo con un incidente d’auto di un suo amico, NdR) mentre andò a quello con i Supersonics di Gary Payton ma soprattutto di Shawn Kemp, un altro che ha “onorato” la maglia di TVCC. All’epoca in panchina c’era George Karl che, nonostante la ridotta esperienza NBA confrontata a quella di oggi, non esitò a definire quell’allenamento come “il peggior allenamento che avessi mai visto”. La verità arriva direttamente da bocca di Karl: “Ci siamo incontrati per la prima volta in un albergo di Seattle ed io indossavo un cappellino di North Carolina. Quando lui lo vide mi offrì il suo parere, dicendo che con tutto il lavoro fatto, Dean Smith avrebbe dovuto vincere più titoli NCAA. Quello che forse non sapeva è che io ho giocato per Smith a Chapel Hill. Gli chiesi dove aveva fatto esperienza da allenatore e non mi rispose”. Il problema è che qualche ora dopo si rincontrarono e Nick si presentò con un folgorante cappello di…Duke. Gli episodi che hanno del comico continuarono durante i primi allenamenti. Nick cercò di evitare le varie prove di agilità – sebbene fosse considerato un lampo in campo – ma quando toccò a lui non potette tirarsi indietro. Un giro che in genere si completa in 50/55 secondi, lo completò in 1:08. Coach Karl non si vergogna a definirlo un real asshole e gli chiese di rispettare il range di 55 secondi. Ingaggiarono una sorta di sfida personale e mentre Karl provava ad incitarlo, il suo secondo giro fa registrare un record negativo: 1.20. Quello che Karl imparò da quella gara è che il ragazzo aveva competitività, nonostante avesse dei limiti. “Una parte di me amava quel ragazzo”, spiega l’ex coach dei Sonics che provò disperatamente a prenderlo a quel draft. Seattle aveva la 23 (già occupata idealmente da Ervin Johnson) e la 42. Entra in quel Draft con la chiara etichetta di bad boy, perché come egli stesso affermerà anni dopo “i giorni che precedono il Draft sono fatti di pettegolezzi, di racconti sul conto dei giocatori, sulle loro esperienze all’università e i miei non erano quelli perfetti”. Intanto un playmaker discreto dal nome Jerry West sedeva dietro la scrivania dei Los Angeles Lakers, con il suolo di GM. Aveva parlato con coach Huggins e si era fatto mandare dei filmati che fecero sobbalzare sulla sedia Mr. Logo. West avrà rivisto il video di Cincinnati-NCU una decina di volte e, così, prese i migliori giocatori delle due squadre: da un lato George Lynch con la 12, dall’altro, con la chiamata numero 37, Nickey Maxwell Van Exel. Non fu un draft indimenticabile: Chris Webber diretto a Orlando ma scambiato con la 3, Penny Hardaway, con Golden State, Sam Cassell alla 24, il compianto Alphonso Ford da Missisipi State. In definitiva, Los Angeles sarà la nuova casa per Van Exel.
Le luci di Hollywood su The Quick – I Lakers erano nel pieno dell’epoca post-ShowTime e la stagione 1992-93 non si era conclusa nel migliore dei modi: 39-43 in RS, qualificati come ottavi per i PO e usciti 3-2 dopo il primo turno contro i Suns dell’MVP Charles Barkley. La squadra non conosce mezze misure: o veterani, o rookie. Ci sono James Worthy, James Edwards e Byron Scott (quello che siede sulla panchina giallo-viola al momento) come veterani e una serie di rookie interessanti come Doug Christie e Anthony Peeler. Dopo l’annata poco convincente, si decise di tenere lo zoccolo duro e di prendere qualche giocatore importante, come Trevor Wilson, per ripartite. A roster ci sono: Sam Bowie, Elden Campbell, Doug Christie, Vlade Divac, James Edwards, Antonio Harvey, Reggie Jordan, George Lynch, Anthony Peeler, Kurt Rambis, Danny Schayes, Tony Smith, Sedale Threatt, Trevor Wilson, James Worthy e il nostro Nick. Passare ad occupare la significativa ma sempre piccola cabina di regia dei Bearcats ad occupare quella che per ben 12 stagioni è stato il trono di Magic Johnson è un passo discreto ma per Van Exel la sfida è solo più stimolante. Prende sostanzialmente il posto del più grande interprete del ruolo nella storia del Gioco, eppure i tifosi inizialmente non notano differenza se non nel fisico dei due. Le magie di Magic e i numeri da prestigiatore consumato non sono così dissimili e il rapporto con i tifosi e la franchigia inizia nel piede giusto. Al di là dei suoi 13.6 punti e i quasi 6 assist a sera in poco più di 33 minuti di utilizzo, il segno che lascia Nick in quella stagione da rookie è per molti addetti ai lavori indelebile. Lo stesso Jerry West, che sulla carta avrebbe inventato quel tipo di ruolo, non crede ai suoi occhi. Alla fine della stagione viene inserito nel secondo quintetto delle matricole, una soddisfazione molto magra visto che per la squadra non riuscì ad arrivare ai playoff. Verso la fine della stagione, però, i numeri tendono ad inchiodare Nick: è il Laker che prende più tiri (13) di media a gara, dopo Peeler. Le statistiche non sempre aiutano e la lunga estate senza post-season fu caratterizzata da un rapporto che pian piano diventava sempre più complesso. L’impatto con Hollywood era stato troppo forte: per i giornalisti e per il pubblico, Nick era croce e delizia, un giorno andava osannato come un mito, il successivo era un giocatore che doveva essere ceduto immediatamente per il bene della squadra.
La cocente delusione dei playoff mancati per la prima volta nella storia della franchigia costringe la società a tornare pesantemente sul mercato e arrivarono Eddie Jones e Cedric Ceballos: sono i Lakers del Lake Show. La squadra non cambia radicalmente ma aumenta la sua dote di talento. A roster ci sono Sam Bowie, Elden Campbell, Cedric Ceballos, Lester Conner, Lloyd Daniels (leggenda vivente vista anche per un breve periodo in Italia), Vlade Divac, Antonio Harvey, Eddie Jones, Randolph Keys, George Lynch, Anthony Miller, Anthony Peeler, Kurt Rambis, Tony Smith, Sedale Threatt e il nostro Nick Van Exel. La squadra nella stagione precedente aveva risentito in maniera negativa di ben due cambi in panchina: si iniziò con Randy Pfund, esonerato dopo un rivedibile 27-37 e rimpiazzato da Bill Bertka che, però, durerà solo due partite (1-1), lasciando il proscenio ad una breve parentesi di Magic Johnson da HC dei Lakers (5-11). Si decise di ricominciare e di affidare la franchigia a coach Del Harris. La stagione 1994-95 è un viaggio all’interno di un mondo fantastico, dove gli abitanti sono solo due: Nick Van Exel e Eddie Jones. Sono loro i pilastri dei nuovi Lakers, insieme ad un Ceballos che salterà 30 partite per infortunio. I due combinano 31 punti di media a sera, con Nick che smazza 8.3 assist a gara. I quasi 17 di media di Van Exel non raccontano nulla della sua stagione: le giocate lasciano le difese impotenti, la visione di gioco è degna dello showtime, i passaggi per i compagni semplicemente impensabili. Lo scenario offensivo viene completato da un 36% dall’arco e da alcuni tiri che hanno dell’incredibile, come l’indimenticabile buzzer beater che iscrive Van Exel nella leggenda del Boston Garden. Era il 21 gennaio del 1995 quando, con 2.4 secondi e col punteggio che dice Lakers 117 Boston 118, segna uno dei più incredibili game winner nella storia della più antica rivalità NBA.
La velocità d’esecuzione di ogni tipo di fondamentale era incredibile e la sua rapidità lo portò ad essere soprannominato “Nick The Quick“. Si arriva ai PO come quinta forza e i Lakers si accoppiano con i Supersonics di Payton, Kemp, Schrempf, Marciulionis e… George Karl. Il fattore campo è a sfavore dei giallo-viola ma due maestose partite di Nick portano i Lakers sul 3-1, eliminando una delle più credibili contender. La partita che porterà LA sul 3-1 è la miglior partita NBA per Van Exel: 40 punti, 7 rimbalzi, 4 assist, 7/9 d 3 in 46 minuto di impiego. Tutto questo contro il miglior difensore della Lega: Gary Payton. Secondo turno contro i San Antonio Spurs di David Robinson e Dennis Rodman. Non ci fu troppa storia: 4-2 e sogni nuovamente infranti. Ci fu il suo zampillo anche in quella serie: in gara 5 (16 Maggio 1995) prima manda la partita all’overtime con la solita tripla mancina e poi bissa nel supplementare con un tiro da 3 in corsa dopo un salvataggio di Divac (https://www.youtube.com/watch?v=x1pDG6IWIlY). Chiuderà i suoi playoff con 20 di media e più di 7 assist a sera. Inizia la stagione 1995-96 e una novità sconvolge la città degli angeli e più in generale il mondo della pallacanestro. Dopo i fatti ben noti, torna in campo Earvin, detto Magic, Johnson. Il roster, quindi sarà formato da Corie Blount, Elden Campbell, Cedric Ceballos, Vlade Divac, Magic Johnson, Eddie Jones, Frankie King, George Lynch, Anthony Miller, Anthony Peeler, Fred Roberts, Derek Strong, Sedale Threatt e come sempre il nostro Nick Van Exel. Mai conforme alle mode, al main stream, a quello che una influente opinione pubblica come quella statunitense ritiene sia giusto. Il nostro Nick si schiera più o meno apertamente contro il ritorno di una leggenda come Magic, in primis perché sa che perderà il posto da titolare e in secondo luogo perché l’attacco dei Lakers non passerà più per le sue mani. Il problema di Van Exel è che schierarsi contro una leggenda ti mette sotto i riflettori sì, ma quelli sbagliati. Inevitabilmente il minutaggio cala, così come il suo impatto sulle gare. Le sue medie rimasero incredibilmente alte se rapportate al suo impiego (14.9 punti e 6.9 assist). Quei Lakers chiusero con un buon 53-29 e da quarta forza sfidavano la quinta col vantaggio del fattore campo. Non servì. Gli avversari, i Rockets di Hakeem The Dream, di Clyde The Glide e di Sam Cassell, vinsero la serie 3-1. Più di una normale delusione perché la squadra di Del Harris era stata costruita per grandi cose ma non riusciva a superare i primi due scogli della post-season. Sconfitte del genere infiammano uno spogliatoio, specie se qualcuno non viaggia sulla stessa lunghezza d’onda della squadra. I malumori crescevano e, a quando si dice, Nick Van Exel capeggiava quella fronda di spogliatoio che spinse Magic ad un secondo ritiro (anche se Johnson aveva giocato appena 32 gare totalizzando 15+7 a sera). Prima ancora della fine della stagione regolare, il nervosismo era già alle stelle e, seguendo le parole di Jerry West, iniziò la fine dell’amore tra The Quick e LA. A 7 partite dalla fine della RS, a 3:32 dalla sirena finale di un Lakers-Nuggets, l’arbitro Ron Garretson fischia un fallo di Nick a favore di Dale Ellis. Van Exel protesta in modo sarcastico e Garretson, dopo una breve conversazione con il nostro, segnala il fallo tecnico durante il successivo timeout.
Nick, che si era allontanato per rientrare in panchina, al fischio riscatta in campo e si avvicina all’arbitro. Secondo quanto riportano testimoni oculari, l’espressione “little midget” (piccolo nano) pronunciata da Van Exel non deve essere stata gradita da Garretson che mostra la seconda T al play dei Lakers. Nick perde le staffe e con l’avambraccio spinge l’arbitro sul tavolo degli ufficiali di campo. Le conseguenze furono: espulsione per doppio tecnico, 7 partite di squalifica (terza peggior squalifica per azioni contro arbitri) e $25.000,00 di multa (la più salata della storia) alla quale va aggiunta una detrazione dallo stipendio di $161.000,00. Alla fine dei PO, Magic annuncia il suo definitivo ritiro e le redini del gioco tornano nelle mani del talento del Wisconsin.
Kobe, Shaq e… Cancun! – La stagione 1996-97 è l’anno della svolta per i Lakers. La squadra non cambia completamente pelle ma aggiunge 3 innesti che, ad occhio e croce, riscriveranno la storia della franchigia. Dal draft arrivano tali Derek Fisher da Arkansas e Kobe Bean Bryant da Lower Merion HS. L’acquisto che fa impazzire le folle, però, viene dalla Florida: per 4 anni ha fatto saltare tutte le aree col tritolo e dopo aver rotto con i Magic, si dirige ad Hollywood, il su habitat naturale. Stiamo parlando di Shaquille O’Neal. Il roster, quindi, è formato da Corie Blount, Kobe Bryant, Elden Campbell, Cedric Ceballos, Derek Fisher, Robert Horry, Eddie Jones, Jerome Kersey, Joe Kleine, Travis Knight, Larry Krystkowiak, George McCloud, Shaquille O’Neal, Rumeal Robinson, Sean Rooks, Byron Scott, Nick Van Exel.
La RS finirà 56-26 ma lo show che mettono in piedi Nick, Kobe e Shaq è sensazionale. Non si vincerà sempre perché per far felici i 3 di cui sopra occorrerebbero 6 palloni ma il modo di trovarsi in campo va al di là di ogni immaginazione. Shaq chiude con 26+13 a sera, con l’aggiunta di 3 stoppate; Nick con il classico 15+9 ad allacciata di scarpe; Kobe, timido e panchinaro per il suo anno da rookie, si ritaglia spazi per mostrare il suo grande talento. Eddie Jone e Ceballos fanno il resto.
Le aspettative alla vigilia della stagione sono tante ma, ancora una volta, non si riesce ad andare oltre il secondo turno: Portland viene battuta 3-1 ma al secondo ostacolo ci sono i rodati Utah Jazz della coppia Stockton-Malone. Perentorio 4-1 e di nuovo tutti a casa prima del previsto. L’anno successivo la squadra migliora ancora con l’inserimento di Fox e l’inizio della scalata di Kobe e si arriva, dopo aver annichilito Phoenix e Seattle nei primi due turni, in finale di conference. Ci risono i Jazz e la storia è nuovamente dura. Van Exel, nel frattempo, cercava di giocare a modo suo, coinvolgendo gli altri ma mai abbandonando la sua mancina. Cercava di accontentare tutti ma restando fedele al suo stile di gioco. Nello spogliatoio, il nuovo spogliatoio dove non era l’unica voce in capitolo, si iniziano a percepire i primi contrasti e la goccia che fa definitivamente traboccare il vaso arriva a pochi minuti dalla palla a due di gara 4, con i Lakers sotto 3-0. Siamo nella looker room dei Lakers e quando la squadra cerca di caricarsi in ottica elimination game, qualcosa va storto. Qualcuno vociferava di un Van Exel, svogliato e desideroso di vacanze dopo la lunga e faticosa stagione. Al momento del canonico urlo “1, 2, 3: Lakers!” qualcuno non è perfettamente allineato e al posto del nome della squadra di appartenenza si lascia sfuggire Cancun, nome di una delle più belle mete turistiche messicane. Quel qualcuno risponde al nome di Nickey Maxiell Van Exel. Il fatto di aver insistito il giusto per mantenere la sua versione dei fatti, non ammette repliche: “Era uno scherzo, di certo non una resa. Parlo in continuazione in spogliatoio e dissi qualche frase del tipo ‘Bene ragazzi, questa è l’ultima partita. Poi ci rivediamo il prossimo anno’ ma lo feci solo per sciogliere i ragazzi e per farli sorridere, per stemperare la tensione. Solo quando le cose vanno male qualcuno dice quello che non va ed è facile puntare il dito contro. Se poi si tratta di me, le persone sono più che disponibili a gonfiare un episodio. Chiunque era in quello spogliatoio con me sa che non avrei mai rinunciare alla squadra. Ma puntare il dito è più facile di quanto si immagini. Io non c’ho visto niente di male in un paio di battute scherzose”. Questa versione dei fatti non convinse i due principali giocatori e sia Shaq che Kobe si recarono personalmente dalla dirigenza per chiedere il taglio di Nick. E come ci si fa a mettere contro i due uomini più importanti della tua franchigia? Valigia pronta Nick, si parte.
Dal caldo al freddo: le Montagne Rocciose e i Nuggets – Dopo aver passo i suoi primi 5 anni in NBA ricoprendo il ruolo di PG in una delle squadre più gloriose della Lega, è ora di cambiare lidi per Nick. Lascerà la California con tante magie, tanti game winner, la controversia che caratterizza ogni artista folle, 14.9 punti e 7.3 assist a sera e una netta frattura tra la parte dei tifosi che adorava le sue giocate e chi invece evidenziava sempre i suoi due limiti più grandi: la difesa e l’egoismo cestistico. Lo scambio prevede Tyronne Lue (quello che adesso siede sulla panchina dei Cavs) e Tony Battie ai Lakers mentre Nick si accasa ai Denver Nuggets. Qui tutto è diverso: vestirà la #31 e non la #9 come ai Lakers, le ambizioni della squadra sono estremamente differenti, le finanze della franchigia non sono a livello dei giallo-viola, non si andrà mai ai PO nel periodo in cui Nick è in Colorado e le cifre crescono rispetto alle prime 5 stagioni. Il matrimonio è difficile, com’è stato difficile quello a TVVC, com’è stato difficile quello con i Lakers. Se c’è una costante, però, quella è la voglia di non tirarsi mai indietro. Anche con un roster formato da Cory Alexander, un giovane Chauncey Billups, Keon Clark, Danny Fortson, Carl Herrera, Raef LaFrentz, Kelly McCarty, Antonio McDyess, Loren Meyer, Bryant Stith, Johnny Taylor, Eric Washington, Tyson Wheeler, Eric Williams, Monty Williams la voglia di giocare, di provare a vincere non manca mai. Abbiamo evidenziato due nomi, quello di Danny Fortson e quello di Monty Williams. Con l’attuale assistente dei Thunder, non correva buon sangue. Nell’ultima stagione in maglia Lakers, Van Exel aveva iniziato un battibecco finito in malo modo con l’ex Spurs e le ripercussioni furono piuttosto gravi.
L’excursus per Fortson, invece, è doveroso. È un altro prodotto di Cincinnati ed è stato praticamente l’erede di Nick in quell’università. Arriva nel 1994 per poi essere selezionato dai Bucks alla 10 tre anni più tardi. È stato, come Nick, sotto la guida di coach Bob Huggins e i risultati, specie quelli psicologici, sono sempre molto visibili. Non vogliamo spingerci nel dire che Huggins “allevasse ragazzi violenti” perché sarebbe eccessivo ma il concetto non si distacca molto dalla realtà. L’ossessione per il fisico è sempre stato un marchio di fabbrica in casa Huggins e quando Milwaukee selezionò un suo pupillo al draft (considerato il nuovo Barkley), il gesto istintivo di Fortson fu quello di mostrare i suoi forti bicipiti. Chi ha giocato tante volte contro i Bearcats di Huggins sa che “si inizia con una partita di basket ma si potrebbe finire con un incontro di wrestling”. Anni dopo Van Exel spiegherà che la volontà di Huggins è quella di avere una squadra che intimidisca l’avversario: “Vorrebbe sconfiggere tutti di 100 punti, vuole giocare sempre duro, con i gomiti alti e farà tutto il necessario per impostare le partite in questo modo”. La sottile differenza tra giocare sporco e giocare duro è l’ancora di salvezza del coach.
I due prodotti di Cincinnati si ritrovano a Denver e hanno modo di allenarsi molto insieme perché la stagione 1998-99 inizierà solo il 5 febbraio 1999 per via del primo lockout della storia della NBA. Alla guida di quei Nuggets c’è un uomo baffuto che ha fatto la fortuna dell’Olimpa Milano: Mike D’Antoni. Nelle 50 partite giocate, Nick mette a segno 16.5 punti di media con 7.4 assist. La stagione, però, va decisamente male: 14-36 e 26esimo record su 29. Per i playoff non basterebbe il binocolo. Gli assist nella stagione successiva diventarono 9 a sera ma la squadra non aveva un roster adatto per competere per qualcosa di serio. Il solo McDyss, in coppia con Nick, non bastava e anche le stagioni seguenti furono disastrose. Nonostante i numeri e la leadership indiscussa, le ambizioni di Van Exel erano altre: voleva vincere.
Furono assai frequenti le richieste di essere ceduto, perché i Nuggets non avevano intenzione di puntare in alto. Il problema dell’etichetta del giocatore, già citata prima del Draft 1993, torna ad essere influente. I Nuggets provano ad accontentare il giocatore ma non c’è troppo mercato per i bad boy. Costretto a restare, decise di darsi da fare: nella stagione 2000-01, con McDyss 100% e con cifre importanti, guidò Denver alla prima stagione soddisfacente: 40-42. Il record non bastò per accedere alla post season. Chiuse con 17.7 punti + 8.5 assist e decise di fare l’ultimo viaggio. Anche nel 2001-02 qualcosa andò storto: in panchina non c’è più D’Antoni ma Dan Issel, arrivarono nomi come Tim Hardaway, Juwan Howard (lo stesso che aveva stroncato il suo sogno NCAA), Avery Johnson ma il fulcro centrale, ovvero sia McDyss, si infortunò e i sogni di PO svanirono nel nulla. Contratto in scadenza, nessuna volontà di rinnovarlo e, dopo 4 stagioni chiuse a 17.7 punti di media con 8.4 assist, Nick rifà le valigie e riparte il 21 febbraio 2002 alla volta di Dallas.
I Mavs e l’amore cestistico della sua vita: Don Nelson – Ricapitolando: dal Wisconsin al Texas, dal Texas all’Ohio, dall’Ohio alla California, dalla California al Colorado e dal Colorado nuovamente al Texas. Il viaggio è stato lungo e il nostro prende sempre più consapevolezza di quello che è e di cosa può offrire ad una squadra. A metà stagione, dunque, passa ai Mavericks insieme a Raef LaFrentz, Tariq Abdul-Wahad e Avery Johnson. I Mavs di quella stagione andavano piuttosto forte per 3/4 motivi: il primo si chiama Don Nelson ed è il promesso sposo perfetto di Nick The Quick. Folle come lui, stravagante come lui, a tratti menefreghista come lui. I patti sono subito chiari e il modo di fare del coach piace a Van Exel che, stranamente, acconsente; il secondo, il terzo e il quarto si chiamano rispettivamente Michael Finley, Dirk Nowitzki e Steve Nash. Nick sa che il palcoscenico è quello giusto, l’età avanza ed è meglio mettersi in riga se si vuole cercare di combinare qualcosa. L’ultimo nome citato crea qualche problema perché il canadese è il play titolare inamovibile e il nostro sa che partirà dalla panchina. Primo pizzico sulla pancia. Accettare il ruolo di sesto uomo non fu facile ma le ambizioni prevalsero su tutto. La squadra concluse la stagione 57-25, quarto miglior record della Lega e ai PO arrivarono prima i T’Wolves (sweep semplice) e poi i Kings di Webber, Stojakovic, Christie e del suo ex compagno di squadra Divac. Non ci fu troppa storia: 4-1 e altra chance di vincere mandata al vento. Nella stagione successiva, arrivò la svolta nella carriera di Van Exel: dopo aver giocato una straordinaria regular season da 62-20 (miglior record insieme agli Spurs), Nelson decide di far giocare Nick sia come cambio di Nash sia condendogli dei minuti da guardia al posto di Finley.
È la mossa che cambia radicalmente i PO dei Mavericks. Il primo turno è più complesso del previsto: si va alla settima contro i Trailblazers ma uno grandissimo Nowitzki (31+11) e uno straordinario Van Exel dalla panchina (26 con 10/15 dal campo) vincono la bella. Al secondo turno arrivano di nuovo i Sacramenti Kings ma stavolta il fattore campo è a favore dei Mavs e si arriverà anche qui alla settima gara. La serie viene magnificamente giocata da The Quick che va 3 volte oltre quota 35 punti, sempre uscendo dalla panchina. Se andate a Dallas e chiedete ai veri tifosi qual è il loro momento più emozionante risponderebbero il titolo del 2010 ma subito dopo c’è la gara 7 tra Mavericks e Kings del 2003: finirà 141-137 dopo due overtime e accanto ai 25 punti e 20 rimbalzi di Nowitzki e ai 31 di Nash arrivano i 40 di Van Exel con 6 triple, 7 assist e altrettanti rimbalzi. Prova leggendaria se ce n’è una. Va per la seconda volta in finale di conference ma, come in occasione della prima, dovrà arrendersi: Dallas, costretta a fare a meno di Dirk per infortunio, cederà 4-2 contro i futuri campioni NBA. Proprio quando sembrava che avesse trovato la sua dimensione e il suo perfetto ruolo, arriva il fulmine a ciel sereno: la dirigenza decide di cederlo. Il 18 Agosto 2003 arriva l’ufficialità dello scambio. Di nuovo valigie, si ritorna in California.
Warriors e Trail Blazers, due disavventure – Altro tiro, altro giro, altra trade: Van Exel finisce ai Warriors insieme a Evan Eschmeyer, Avery Johnson, Popeye Jones e Antoine Rigaudeau, mentre in Texas vengono spediti Antawn Jamison, Chris Mills, Danny Fortson e Jiri Welsch. Il roster parla chiaro: con un giovanissimo J-Rich, con Dampier e Clifford Robinson, il 32enne Van Exel non vedeva alcuna prospettiva di successo. Non appena venne a conoscenza dello scambio cercò di trovare una soluzione per assecondare la sua fame di successo ma non ci fu modo. Nonostante avesse sempre espresso di “voler finire la carriera in Texas”, il suo agente e amico d’infanzia Tony Dutt non riuscì a piazzarlo meglio. La sua unica stagione in quel di Oakland si chiuse con 12.8 punti di media e 5.3 assist. Giocò pochissimo (appena 39 partite su 82) perché spesso infortunato e spesso con poca voglia. Senza mezzi termini la sua peggiore stagione in carriera. Nella calda estate californiana decide di operarsi ad un ginocchio che dà problemi e nel frattempo arriva la notizia dell’ennesimo trasferimento. Il 20 luglio 2004 viene ufficializzato il suo passaggio ai Portland Trail Blazers, proprio quelli che aveva distrutto in quella famosa gara 7. Anche qui, l’amore con società, tifosi e compagni non sboccerà mai. Così come ad inizio carriera arrivò a Showtime concluso, anche in Oregon arrivò quando i membri rappresentativi di quei fantastici Jail Blazers avevano già tutti cambiato aria. Appena 53 gare con 11 punti di media. Gli stessi Trail Blazers decideranno di non rinnovargli il contratto per la stagione successiva.
Gli Spurs, Popovich e la chance della vita – Quando ormai i tempi d’oro sembravano scaduti, arriva una inaspettata chiamata. L’anello 2005 era stato vinto dagli Spurs ed è impossibile dimenticare la serie finale contro i Pistons, con tanto di MVP scippato a Manu Ginobili e assegnato a Tim Duncan. Finita la festa per il terzo titolo nero-argento, Popovich si rimette a lavoro per centrare un bis che non gli è mai riuscito. Si sonda il mercato dei FA e si decide di dare un’ultima opportunità al nostro Nick The Quick. Il roster di quegli Spurs era da urlo: oltre a ritrovare Michael Finley, ci sono Brent Barry, Bruce Bowen, Tim Duncan, Manu Ginobili, Robert Horry, Sean Marks, Nazr Mohammed, Rasho Nesterovic, Fabricio Oberto, Tony Parker, Melvin Sanders, Alex Scales e Beno Udrih. La firma arriva il 29 agosto 2005 ma sono le carte non scritte a parlare per le due parti interessate. La prima riguarda l’accordo verbale con Popovich, col quale Nick ha avuto un colloquio prima della firma. Alla stretta di mano finale Van Exel garantiva in primo luogo di prepararsi ad un’annata dove avrebbe dovuto allenarsi duramente ogni giorno e in secondo luogo di accettare di essere fisso un componente della panchina e, quindi, non aver nessun tipo di minutaggio assicurato. Se avesse chiesto al ragazzo di Kenosha la stessa cosa ai tempi dei Lakers, probabilmente vi avrebbe riso in faccia ma ora no. La fame di vittoria è troppa e si scende a compromessi. La seconda, invece, riguarda il numero di anni scritti su quel contratto: 1. La volontà degli Spurs era quella di firmarlo con un biennale ma il suo fisico non avrebbe retto due stagioni a quei ritmi. Decise, così, di annunciare il suo ritiro a fine stagione. Premendo per un secondo sul tasto flashback, Nick ha raggiunto il suo obiettivo: finire la stagione in Texas e provare a vincere un anello. Non andò come sperava. Non si lamentò mai per lo scarso minutaggio (poco più di 15 minuti a sera) e veniva per lo più usato per “punire” il giovane Parker quando commetteva un errore. Nei playoff scesero a 11 i minuti giocati di media e il sogno del repeat degli Spurs si infranse al secondo turno quando furono sconfitti proprio dai suoi ex Dallas Mavericks (3-4), guidati da un superbo Dirk Nowitzki che chiuse la serie con oltre 27 punti di media. Il 24 maggio del 2006 termina la carriera di uno dei più enigmatici giocatori passati per la Lega più spettacolare del mondo.
Le esperienze in panchina – Dopo 3 anni dal ritiro, Nick è già stufo di star lontano dalla pallacanestro e decide di intraprendere la carriera da allenatore. Inizia come vice capo allenatore ai Tigers dell’università di Texas Southern. Sarà il braccio destro di coach Ronnie Courtney, altro personaggio dalla storia incredibile. Gli basta appena un anno di gavetta prima di compiere il salto tra i pro e diventare uno dei consiglieri personali di Larry Drew, nel 2010 HC degli Atlanta Hawks. Si occuperà dello sviluppo dei giocatori. Resta in Georgia per due stagioni prima di trasferirsi, sempre al fianco di Drew, a Milwaukee. Catastrofica stagione dei Bucks da 15-67 e conseguente esonero per i due. Ritornerà nel deserto texano, dove tuttora vive, ed è HC dei Texas Legends, squadra di D-League affiliata ai Dallas Mavericks, dopo aver succeduto in panchina il suo ex compagno di squadra Eduardo Nàjera. Neanche da allenatore perde occasione di ricordare a chi non ha creduto in lui che si sbagliava: “Credo di aver percorso una lunga strada nella mia carriera da giocatore ed ora mi ritrovo qui, alla fine del mio viaggio. Solo ora la gente mi rispetta davvero ed è una situazione particolare per me. Solo ora la gente capisce che sono una persona seria”. Nel frattempo, la promettente carriera da allenatore di Nick riscuote anche elogi importanti. Rick Carlisle non sottovaluta la sua ascesa: “Non è facile per i giocatori che sono stati delle star attraversare la barricata e passare dal gioco al coaching. Sono estremamente impressionato dal modo in cui ha affrontato questa sua prima parte del percorso. Mi stupisce la sua concezione che niente sia dovuto e nessuno ha diritti a nulla. Ha lavorato e sudato per tutto quello che ha ottenuto e ha lavorato e sudato anche per avere questa opportunità. Se la merita“.
Vi abbiamo raccontato la carriera NBA di Van Exel ma la sua vita non finì in quella notte di maggio nell’ormai lontano 2006. Così come in campo, Nick ha vissuto e vive tuttora di alti e bassi, come se non ne potesse fare a meno. La fine della sua carriera ha fatto decadere la sua etichetta di bad boy e sono a bocce ferme ha tenuto a precisare una cosa a riguardo: “Certo, sono uno che si arrabbia, sono lunatico, molti vedono il male in me ma queste cose sono solo relative ad un campo da basket. Voglio sempre vincere, ad ogni costo, e se non ci riesco vincere mi arrabbio con tutti. La rabbia che ho portato dentro mi ha permesso di fare quello che ho fatto. Per me un bad boy è qualcuno che porta questa rabbia anche nella vita personale ed io sono fiero di non averlo mai fatto. Chi mi conosce davvero sa come sono fatto”.
Ci sarebbero tantissimi altri aneddoti da raccontare sulla vita mai banale del figlio del Wisconsin. C’è voluto del tempo per vedere il vero Nick Van Exel ma alla fine ci siamo riusciti: un genio, un rivoluzionario, sempre fuori dagli schemi, mai allineato col sistema, sempre alla ricerca degli stimoli migliori. È cresciuto sotto la cura di mamma Joyce, scomparsa nel 2006 da sola, senza sosta dal lavoro e senza voler mai lasciare la sua terra per seguire il figlio, nonostante le sue continue richieste. È cresciuto senza un padre veramente presente nella sua vita. Crescere con un solo genitore aumenta a dismisura la sensibilità e l’emotività di un ragazzo che, nonostante tutto, ha provato a conquistare e cambiare il mondo. Il suo personalissimo modo di protezione è sempre stato lo scontro, come se non volesse mischiarsi con ciò che lo circonda. L’infanzia difficile – o quantomeno diversa dagli altri – è un marchio che non si cancellerà mai: “Ho desiderato di essere come Grant Hill o come quei ragazzi che sono stati cresciuti da due genitori e capire cosa significa avere un padre e una madre ma non ho potuto mai farlo. Così ho capito che il basket poteva essere la mia salvezza, il mondo in cui rinchiudermi per essere protetto”. Il campo è stata la sua casa in quelle lunghe giornate di solitudine, in quelle giornate in cui le uniche chiacchiere da scambiare erano rivolte alla sua palla a spicchi.
Non abbiamo potuto citare uno dei suoi racconti più famosi, ovvero sia l’ennesima testimonianza dello spirito competitivo del suo ex compagno di squadra Kobe Bryant. Che la competitività del Mamba fosse presente in partita non lo scopriamo certo oggi e nemmeno che l’onda lunga si spingesse fino agli allenamenti. Quello che non potevamo immaginare, prima delle parole di The Quick, è che la sua mentalità spingesse anche durante gli shootaround, le semplici sessioni di tiro mattutine: “Se penso a Kobe mi viene subito in mente un episodio incredibile. Avevamo un shootaround e utilizzavamo le nostri sessioni di tiro per vedere meglio gli schemi, per capire come la difesa potesse reagire ed eventualmente apportare delle modifiche. Il più delle volte eseguivamo le cose camminando. Kobe, durante questo esercizio, comincia a difendere sul serio su Eddie Jones e tutti noi iniziamo a ridere. Lui era l’unico a non ridere, perché anche gli allenatori cominciarono a farlo dopo poco. Così alla fine, Del [Harris] ha dovuto dirgli ‘Kobe, non stiamo giocando ancora al 100%!’. Fu la frase sbagliata da dire. Kobe era uno che non ti faceva passare su un blocco neanche durante questi esercizi, uno che dava il massimo per il bene del gruppo. Eddie fu solo un caso ma toccò a tutti incrociare un Kobe serio mentre noi camminavamo. Un esempio di competitività ed etica del lavoro fuori dal normale”.
L’ultima particolarità di Nick, trasversale rispetto al nostro andamento cronologico, riguarda i tiri liberi. In 13 stagioni NBA, Van Exel ha tirato con un minimo del 68% nell’ultima stagione fino ad un massimo di 82% nella quarta stagione con i Lakers, chiudendo con una media che flirta con l’80%.
Come i grandi maestri del tiro ci insegnano, il tiro libero è più una questione mentale, di meccanicità, anziché tecnica. La routine, la ripetizione del gesto farà la differenza. Ognuno ha la propria: Jason Kidd manda un bacio al canestro prima di tirare, Karl Malone recita una frase che apparentemente nessuno conosce, Rip Hamilton ha i suoi palleggi normali e il palleggio laterale, Jerry Stackhouse si piega più che può per caricare, Jeff Hornaceck si strofina la mano con cui tira sul volto, Alonzo Morning bacia il polso e lo passa sulla fronte, Gilbert Arenas e Nate Robinson si passano la palla dietro la schiena. Ognuno la sua. Nick non ha una vera e propria abitudine ma ha una particolarità inequivocabile: gli altri tirano i liberi dai canonici 4.57m mentre lui da abbondantemente un metro più lontano dal ferro. Ma perché rischiare allargando il range? “Sono più di un tiratore da tre punti, so tirare bene anche dal mid-range. Nel periodo in cui ho giocato a Denver, mi sono accorto che colpivo spesso il secondo ferro quando sbagliavo, come se i miei tiri liberi fossero tutti lunghi. Ho fatto un paio di passi indietro e ho trovato molto più confortevole il tiro. Da lì in poi ho continuato sempre con questa tecnica. Non importa dove ti trovi con i piedi, è importante avere la stessa routine perché i tiri liberi sono tanto mentali quanto fisici”.
Per chiudere, vale la pena fare un salto anche in una vicenda che non vede coinvolto in prima persona Nick ma la sua famiglia. Il figlio di The Quick, Nickey III, nel dicembre 2010, a soli 19 anni, è stato accusato di omicidio colposo per aver ucciso Bradley Eyo, suo migliore amico. Il processo dura quasi 3 anni e si susseguono diversi interrogatori, tra cui quello dell’ex stella NBA. Secondo la versione portata avanti dell’avvocato di Nickey, i due amici stavano giocando con un fucile da caccia a casa Van Exel a Garland quando è partito un colpo in direzione di Bradley. Per la difesa, chi ha sparato non era a conoscenza del fatto che il fucile fosse carico. Una giuria della contea di Dallas, il 31 gennaio 2013, condanna l’accusato a scontare la pena di 60 anni di carcere. Durante il processo, Nick Van Exel non riesce a trattenersi e tutta a sua emotività viene fuori.
Piange sul banco dei testimoni, chiede scusa alla famiglia Eyo per quanto successo, guardandoli dritti negli occhi: “Chi era Bradley? Il migliore amico di mio figlio”, dice singhiozzando. “Ho sempre pensato ci fosse un gran bene tra i due e sono sicuro che mio figlio amava il suo migliore amico. È stato un errore terribile, un incidente” continua a ripetere scuotendo la testa, senza trovare una soluzione. “Probabilmente mi perseguiterà per sempre. Conoscevo bene Bradley, conosco la sua famiglia. È rimasto da noi molte estati ed è venuto, insieme a suo fratello, con me e mio figlio a Miami nel 2006 in occasione della Finals. Se fossi dall’altra parte sarei sconvolto, arrabbiato perché guardo mio figlio e vedo me, quello che ho creato, quello che sono come genitore”. Ma quel venerdì, al Frank Crowley Courts Building di Dallas, la giuria non ritenne un incidente l’episodio. Nick crede ancora al ricorso in appello e spera che la pena possa essere sensibilmente ridotta. È la battaglia più difficile da combattere, è la gara più difficile da giocare. Per una volta, non ha il controllo delle operazioni, non ha la palla tra le mani per decidere sul da farsi.
Vi abbiamo raccontato la storia di un personaggio unico nel suo genere, un All Star di cui pochi parlano solo perché non è un amico del sistema. 6 canotte NBA cambiate, 13 anni vissuti tra alti (molto alti!) e bassi. 880 partite giocate come se non ci fosse un domani, come se da una singola giocata si potesse cambiare il mondo, senza mai dimenticare da dove viene, quello che ha passato e quello che, invece, potrà essere. È stato MAGIC dopo il Magic che tutti conosciamo e non possiamo far altro che toglierci il cappello.