Critica della Rajon pura
Tendenzialmente saremmo per il classico “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Quindi l’opposto di quanto fatto da Rajon Rondo nelle ultime ore, minando il futuro suo e quello dei Chicago Bulls. Eppure anche nel suo sfogo c’è un fondo di verità: un leader sa quando esserlo, quando esternarlo e come dimostrarlo. Con i fatti certo, ma anche con le parole. Non necessariamente a microfoni e telecamere accesi, tanto più in un contesto in cui la ricerca spasmodica del dettaglio polemico o della frase detta o non detta fa parte di quell’immenso carrozzone mediatico che è la Nba dei nostri tempi.
Ma il punto non è questo, anche perché fiumi d’inchiostro sono stati versati (ed altri se ne verseranno) sulla vicenda. Il punto è collocare Rajon Rondo non tanto in un’idea di squadra (quattro quelle cambiate negli ultimi due anni e mezzo, da Boston a Chicago passando per Dallas e Sacramento) quanto, piuttosto inquadrarlo in questo preciso momento storico del gioco, della vita, della sua carriera. L’ultima volta che il #9 ha inciso per davvero è stata in una tremenda serie contro dei Miami Heat benedetti dalle stelle e dal talento di un LeBron James stanco di fare il perdente di successo: 44 punti in gara 2 delle finali della Eastern Conference del 2012 che non impedirono la caduta dei Boston Celtics in partita e serie.
Da allora il nostro, proprio come il grande squalo bianco, non ha ritenuto necessario evolversi, credendo di bastare a se stesso e agli altri così com’era (e com’è ancora oggi): una point guard che ritiene offensivo tirare dalla media/lunga distanza, che si concedeva la penetrazione nel pitturato solo dopo un paio di pick n’roll eseguiti in un certo modo e in un certo tempo (salvo rare eccezioni) e che veniva ripetutamente battezzato dalle rotazioni difensive avversarie. Ma mentre il grande squalo bianco è ancora il predatore principe dei mari, Rajon Rondo è rimasto fermo mentre la Nba cambiava, mentre il gioco cambiava, mentre il suo ruolo cambiava: pensare di vincere oggi con un playmaker che non tira praticamente mai (oppure che, quando lo fa, viaggia poco sotto il 37% di questa stagione) oltre i cinque metri è impossibile. Il campo si sta aprendo sempre di più, a dominare sono gli all around players, si tira sempre più spesso, sempre da più lontano e in sempre meno tempo: e a vincere, con buona pace di Charles Barkley e dei puristi della vecchia scuola, sono i tanti vituperati jump-shooting team. Perché non è un caso che i Cavs abbiano vinto il primo titolo della propria storia quando si sono messi a giocare allo stesso gioco dei Warriors, LBJ a parte.
Cosa c’entra, quindi, Rajon Rondo con tutto questo? La risposta, la prima e forse più superficiale, sarebbe “niente”. E non solo perché il suo erede a Boston, quell’Isaiah Thomas che ci ha messo poco o nulla per prendersi città e franchigia, interpreti il ruolo in maniera diametralmente opposta alla sua. Basta dare un’occhiata ad alcuni dati che potrebbero, nella loro banalità, essere considerati specchio fedele dell’evoluzione della specie, in relazione al meglio su piazza di due differenti epoche cestistiche.
Le statistiche di RR9 nelle ultime quattro stagioni, soprattutto se confrontate con quelle dei due riferimenti nel ruolo come Stephen Curry e Kyrie Irving, dimostrano che nella Nba del 2017 per Rondo non c’è posto dal punto di vista tecnico. Non è la PG dal piazzato affidabile ricercata da una contender (per quanto pare che i Cavs ci stiano facendo più di un pensierino dopo le ultime sparate), non è nemmeno una combo guard alla Westbrook o alla Harden (o, perché no, alla Lillard) in grado di coniugare continuità realizzativa e possibilità di creare dal palleggio per i compagni: Rajon è ancora quel giocatore dalla quadrupla doppia potenzialmente sempre in canna, in grado anche di smazzare un buon numero di assist per i tiratori appostati negli angoli e/o sul perimetro (a modo suo, ovviamente), ma che, ultimamente, oltre a non metterla praticamente mai (confermandosi, tra l’altro un pessimo realizzatore di liberi: il 53.8% stagionale fa il paio con il 60.5 dell’intera carriera) tende a perdere quei tre o quattro palloni di troppo proprio per questa sua continua incertezza in situazioni di open shot.
Ed ecco perché si viene a creare il paradosso di un uomo e un giocatore che ha ragione e torto allo stesso tempo. Ha ragione quando parla, portandola ad esempio da seguire, della sua esperienza ai Celtics sotto Pierce e Garnett; ha torto quando tutto questo viene (ri)letto alla luce di una mancata capacità di regolare il feng shui della propria pallacanestro (tradotto: lavorare sul proprio tiro e migliorando la capacità di lettura di determinate situazioni offensive) per adattarsi ai tempi che stavano cambiando quasi senza che lui se ne accorgesse, (auto)confinandosi in un limbo di indeterminatezza dal quale si fa sempre più difficile uscire ogni giorno che passa.
Si pone, dunque, una seconda domanda, molto più complessa della precedente: è possibile ricostruirsi, anzi reinventarsi, a 30 anni e con l’ultima partita da Rondo disputata quasi cinque anni fa e in un basket in continua evoluzione e che sembra non aspettare nessuno? Sul momento mi viene solo da riadattare una celebre fase di uno dei più bei film della mia infanzia: «Non è play, non è guardia. Sa soltanto quello che non è».
Ma mi auguro di sbagliare. Per lui e anche un pò per noi.