Cosa ci è rimasto di Celtics-Cavaliers
Quando leggi “4-1” pensi ad una resistenza minima, ad una serie giocata senza neanche troppa concorrenza e opposizione da parte di chi, sulla carta, era già spacciata prima ancora di cominciare. Il ruolino di marcia dei Cleveland Cavaliers è stato incredibile e queste Eastern Conference Finals – piene di insidie, dubbi e spunti di interesse – hanno confermato che non c’è squadra che tenga la forza di un gruppo di giocatori guidati da LeBron Raymone James. I Boston Celtics, che escono a testa alta al di là del risultato, non sono riusciti a mettere il bastone tra le ruote ad una squadra che partita dopo partita sembra trovare i rodaggi giusti, il modo più efficace per oleare i meccanismi di una macchina da guerra che sembra intenzionata a fare sul serio nelle terze Finals di fila. Andiamo a vedere cosa ci è rimasto della serie tra Boston Celtics e Cleveland Cavaliers nei nostri consueti 5 punti.
1. LeBron è umano ma non troppo
Aver chiuso una serie con cifre assolute e con quel Record – R rigorosamente maiuscola – la dice lunga sullo stato di forma del talento da Akron, OH. Che sia o meno nello stato di forma migliore che abbia mai avuto è difficile da stabilire ma quello che ci lascia questa serie è l’ennesima conferma che non esistono triple doppie di media che tengono, non esistono barbe out-of-ordinary e non esiste nessuno più forte – sotto il profilo mentale e fisico – di LeBron James. Oltre a sprazzi di dominio psicologico sulla serie, James ha mostrato anche un lato umano, macchiando le sue Eastern Conference Finals con una partita da soli 11 punti, buona soprattutto per gli haters che sono tornati a farsi vivi dopo un buon mese si letargo. LeBron, dunque, si mostra umano e non sempre l’androide che abbiamo conosciuto in queste lunghissime 14 stagioni. La domanda che è lecito porsi è: James è realmente stanco? Ha speso tanto per tenere così alto il livello in queste prime 3 serie e 13 partite? Stando a come ha approcciato nel closeout game (32-9 è il suo record personale in una gara che serve per chiudere la serie), la risposta sarebbe negativa ma non sapremo mai realmente le condizioni dei giocatori arrivati a questo punto della post-season. Umano? Alieno? Quello che la serie ci ha detto è che nessuno finora è in grado di limitare il gioco di LeBron James.
2. It’s heart. It’s pride. It’s grit. It’s tradition. It’s not luck.
Prendiamo in prestito una delle 20.000+ maglie distribuite al TD Garden in occasione di Gara 5 e prendiamo in prestito lo slogan stampatoci sopra: “It’s heart. It’s pride. It’s grit. It’s tradition. It’s not luck” troviamo scritto sul fronte delle t-shirt ed è questa la testimonianza più vera, genuina e giusta con cui i Celtics abbandonano serie e playoff. Al di là di quello che può raccontare un 4-1, al di là delle partite che hanno visto Cleveland demolire nel punteggio i bianco-verdi, i Celtics hanno dato tutto ciò che avevano, rovistando anche dalla riserva nel momento in cui l’anca di Isaiah Thomas ha cominciato a fare i capricci. Il gioco di squadra che coach Brad Stevens ha ormai inculcato nella mente dei suoi giocatori è una componente che alla lunga può fare la differenza ma che, al momento, non è pronto a competere contro una squadra troppo più lunga e completa di Boston. Il Celtic Pride, quell’orgoglio che da decenni caratterizza la franchigia, ha assunto anche in questa serie una sfumatura importante, raggiungendo il massimo picco con la straordinaria rimonta in gara 3 finita con il tiro sulla sirena di Avery Bradley. Anche se il canestro di AB ha impiegato più del dovuto per entrare, hanno ragione i Celtics, It’s not luck, non è assolutamente una questione di fortuna.
3. I Big3, autentici e purissimi
Accanto ai numeri di James, accanto ad un risultato che sembra schiacciante, ci sono due giocatori che stanno giocando una pallacanestro paradisiaca, in termini sia di cifre sia di impatto mentale su questi playoff. Gli altri due giocatori rispondono ai nomi di Kyrie Irving e Kevin Love, le restanti parti dei Big3 dei Cleveland Cavaliers. Partiamo da Uncle Drew: coach Lue gli affida IT4 ad inizio serie e – al netto di qualche errore accettabile – fa un gran lavoro, tralasciando la parte offensiva per rendersi utile nella propria metà campo. Non appena Thomas abbandona la serie per via dei suoi guai fisici, Irving esplode offensivamente: la gara da 42 punti (impreziosita da una caviglia ballerina che non ha preoccupato neanche un po’ il #2 dei Cavs) è un picco altissimo, soprattutto se consideriamo che spesso è stato preso in single coverage da Bradley, uno dei migliori difensori sulla palla e sul perimetro che la NBA offra. La forza mentale di Irving è sembrata straripante, così come le continue invenzioni una volta arrivato con i piedi nel pitturato. La vera arma in più per questi Cavaliers è un Kevin Love in versione cecchino e scorer. Nessuno probabilmente si aspettava un impatto “T’wolves style” da parte del Beach Boy ma Kevin Love ha saputo trovare le motivazioni giuste per piazzare giocati di importanza rarissima e completare – finalmente – l’idea dei BIG3. Da 3 punti è praticamente una sentenza (chiudo con più del 50% dall’arco) e nel pitturato i possessi efficaci aumentano. Se i BIG3 sono effettivamente questi, i Warriors dovranno correre ai ripari.
4. Isaiah Thomas, ma non solo
Per quanto possa risultare ripetitivo, la serie ha espresso una verità inoppugnabile: va bene un sistema vincente, va bene un gruppo affiatato, ma l’NBA attuale richiede – almeno – una stella. Una superstar da numeri impensabili, da tiri imprendibili, da giocate immarcabili. Golden State contro Cleveland sarà anche uno scontro tra fenomeni, quello che ai Celtics manca. Per quanto Isaiah Thomas sia ormai riconosciuto come tale (il che lo rende ancora più incredibile, visti i mezzi fisici), Boston dovrà far leva su tutto il proprio appeal per attrarre a sé un giocatore extra lusso. Non sarà facile: sarà necessario un casting di una certa rilevanza per assicurarsi l’uomo giusto, e soltanto allora il futuro sarà più che roseo, verde. Stando così le cose invece, i Celtics rimarranno una bella realtà ma ben lontani da poter avere legittime ambizioni di Finals: essere arrivati così in fondo invero è già un gran successo. L’estate si promette movimentata: il sogno resta uno tra George e Butler, la realtà al momento più vicina potrebbe condurre a ben altri profili e soprattutto potrebbe coinvolgere la prima scelta del prossimo draft. È soltanto questione di (poco) tempo: queste finali di conference hanno riportato di nuovo la squadra nella considerazione che storicamente merita.
5. Il peso dei veterani
Quando si dice “l’esperienza a giocare simili partite”. Nulla di più vero, perché ciò che è emerso in maniera schiacciante dalla serie è che il controllo dei Cavaliers si è espresso soprattutto dal punto di vista mentale, oltre ad un divario tecnico già visibile guardando ai roster. Ma non è soltanto questione di talento, c’è dell’altro. La lettura delle partite, specialità di casa James, si solidifica col tempo e con le vittorie: Deron Williams, Kyle Korver, Richard Jefferson, Iman Shumpert sono giocatori che hanno spesso concorso per posizioni alte e vinto, chi più chi meno. La riconferma di questo blocco e l’innesto di queste nuove pedine sono state il risultato di una scelta ben precisa, da parte di David Griffin. E lo stesso apporto invece non è arrivato dalle rotazione dei Celtics, che tra giovani promettenti e la nuova giovinezza di Gerald Green non hanno potuto opporre una resistenza più significativa di quella vista. Basta guardare alle rose delle altre contender per rendersi subito conto che Boston è la squadra che meno fa affidamento su questo tipo di giocatori. Gli Spurs ci hanno basato un credo, Iguodala è stato MVP delle Finals da 6º uomo e così via. Ridurre questo fattore al rango di una coincidenza sarebbe riduttivo e sbagliato. E questo Danny Ainge lo sa.