Cosa ci resta della serie tra Spurs e Rockets
La Western Conference ha finalmente trovato la sua seconda finalista, al culmine di una delle serie più coinvolgenti di questi playoff, seconda solo alla furiosa battaglia che sta vedendo confrontarsi Wizards e Celtics. L’unico grande rammarico del derby texano atteso per tutta la stagione è stato senza dubbio l’epilogo, una partita quella di Houston senza storia dall’inizio alla fine, con i Rockets visibilmente scoraggiati dall’esito rocambolesco di gara-5 e arrendevoli sin dal primo quarto. Quindi, cosa ci lascia questa sfida in perfetto equilibrio fino all’ultimo capitolo?
1) Popovich giudice, giuria e giustiziere – Difficile che nel 2017 esista ancora qualcuno che possa avere dubbi sulle capacità del miglior coach del nuovo millennio, eppure anche se non se ne sente il bisogno, Popovich continua a dimostrare come sia sempre un passo avanti a qualsiasi altro collega su ogni aspetto del gioco. Ogni stagione il roster degli Spurs subisce delle modifiche volente o nolente, ma il suo coach puntualmente lo modella a sua immagine e somiglianza, portando giocatori a livelli inimmaginabili prima della sua gestione. Di fronte a mille difficoltà come il ritiro di un pilastro come Duncan, gli infortuni di Parker prima e Leonard poi, la sconfitta devastante di gara-1, i suoi ragazzi hanno reagito come da ormai vent’anni li vediamo fare, a prescindere da quale cognome figuri dietro la canotta. Adesso è chiamato alla sfida più grande della stagione e seppur abbi già dichiarato che la soluzione per battere i Warriors è pregare, sappiamo tutti che c’è sempre qualcosa di straordinario da aspettarsi.
2) La forza degli Spurs viene dai gregari – Questo punto si collega indiscutibilmente a quello precedente, perché se gli uomini che hanno abbattuto i Rockets sono quelli da cui ci si aspettava un’ordinaria amministrazione, il merito va innanzitutto dato all’uomo in panchina. Ma non bisogna dimenticare l’exploit di un Murray e di un Simmons che sembrano davvero poter scrivere pagine importanti nel futuro di San Antonio, non bisogna sottovalutare la garanzia di Patty Mills e soprattutto il sempiterno Manu Ginobili, che anche se per evidenti motivi anagrafici non può essere più considerato al pari dei migliori della lega nel suo ruolo, continua ad elargire sprazzi di genialità che solo un talento cristallino come il suo può permettersi. Quindi complimenti a fenomeni assoluti come Leonard, Aldridge e Gasol, che saranno sicuramente protagonisti quando di fronte avranno i Warriors, ma per adesso in copertina deve andarci il supporting cast, se ancora così può essere definito.
3) La rivalsa di D’Antoni – L’ultima, orribile partita giocata dai Rockets non deve far dimenticare come questo team, relegato ad un ruolo marginale dagli esperti di settore, sia arrivato ad ottenere il terzo record assoluto in NBA ed a giocarsi fino alla fine un posto per le finali di Conference. E il merito di tutto ciò, forse anche più di Harden di cui parleremo in seguito, va dato a Mike D’Antoni. Il coach che ha scritto pagine importanti soprattutto a Phoenix ed in minor modo anche a New York, veniva dal cocente fallimento con i Lakers e la sua voglia di rivalsa era tangibile fin dal suo arrivo in Texas, dove ha rivoluzionato un roster che aveva dato tutto nella gestione McHale ed aveva bisogno di una scossa importante. La scommessa fatta con i vari Anderson, Gordon, Williams e Nenê è stata ampiamente vinta, dimostrando come anche un gioco così spregiudicato può trovare il suo perfetto equilibrio se messo nella condizione giusta, valorizzando anche elementi ai limiti delle rotazioni in passato e oggi semplicemente fondamentali come Capela e Harrell. Il suo ciclo a Houston è appena iniziato e non può essere il brutto epilogo di questa stagione a mettere in discussione il suo lavoro, sperando che in futuro la bestia nera Gregg Popovich venga finalmente sconfitta.
4) La forma definitiva di Harden – Similmente a quanto già detto per il suo allenatore, per giudicare la stagione del Barba bisogna fare un passo indietro rispetto alla nefasta serata di Houston per gara-6, dove il leader assoluto in campo sembrava voler emulare Charles Barkley in Space Jam. L’evoluzione di Harden da stella solitaria con gravi problemi difensivi e di comunicazione coi compagni all’essere il miglior assistman della lega che seppur con grandi limiti da anche il suo apporto dal lato opposto del campo, è semplicemente stupefacente. È ancora lontana qualche settimana la risposta sul se diventerà effettivamente l’MVP stagionale, ma l’impressione è che anche in caso di sconfitta questo numero 13 sia di un’altra categoria rispetto a quello che sfiorò il premio individuale due anni fa, tra le polemiche dei colleghi. Se questo sia il suo limite massimo o se Harden potrà arrivare a superarsi ulteriormente, solo il futuro potrà dircelo.
5) L’ultima chance di evitare Warriors vs Cavs – Senza fare troppi giri di parole, sin dall’inizio della stagione sembrava anche troppo scontato il terzo atto della sfida alle Finals e il cammino immacolato ai playoff delle due franchigie sembra spingere in questa direzione, ma l’NBA ha un bisogno vitale di evitare una situazione di imbarazzante diarchia e non si offendano i fan di Wizards e Celtics se l’unico piccolo residuo di speranza ritengo risieda a San Antonio, Texas. Al netto di un evidente differenza di valori tra i due roster, con i Warriors che hanno costruito una delle squadre sulla carta migliori della storia di questo sport, gli Spurs hanno le carte per metterli in difficoltà, sia per un atteggiamento collettivo straordinario che per il genio di quell’uomo in panchina di cui abbiamo parlato nel primo di questi cinque punti. Il pronostico sarà ovviamente loro avverso, ma al contempo è difficile immaginare una finale agevole per Durant, Curry e compagni come avvenuto con Utah e Portland.