Ciao, Craig. Faccia (e giacca) del giornalismo moderno
Si può diventare il simbolo, una delle tante facce, di uno sport pur senza essere mai sceso in campo con canotta e pantaloncini? Pur senza aver mai palleggiato, mai inventato un assist vincente o un tiro decisivo allo scadere?
Se pensiamo a Craig Sager, la risposta è si. Assolutamente si.
Perché nei suoi 40 anni di carriera, Sager è diventato il volto della NBA, quello che, probabilmente meglio di tutti gli altri, incarnava lo spirito della Lega, del gioco, dello sport.
A testimoniarlo, i messaggi caduti a frotte a pochi minuti dalla sua scomparsa, arrivati da ogni parte del mondo e pronti a ricordare un gesto, un momento, un attimo in cui, tra una giacca e l’altra, Sager ha saputo indirizzare la Lega e accompagnare ogni spettatore del mondo.
NBC, CBS, TNT. Non interessava dove vederlo, ma perché. Con un microfono in mano e dietro una telecamere, Craig Sager era riuscito ad anticipare i tempi; nel mondo degli smartphone, di internet, delle notizie che si rincorrevano minuto dopo minuto, lui sapeva starci alla grande, nonostante la sua non giovanissima età.
Ma con quel fare giocoso, scherzoso, quasi ludico, che tanto diceva sul ruolo e sul lavoro che più di ogni altra cosa lo completava.
Con quelle giacche così, famose in tutto il mondo, ci vuole tempo a farsi voler bene ed a farsi apprezzare come un professionista stimato, ma per Sager è stato facile; ogni sua intervista, ogni suo intervento dal campo non è mai risultato banale, ogni faccia a faccia regalava allo spettatore un dato in più (e mai in meno) su cui poter riflettere, poter analizzare.
Sempre pronto a dispensare sorrisi, non è un caso che la spalla migliore in tanti anni di collegamenti dal parquet sia stato Coach Popovich, uno che, per estrazione morale, è sempre stato la sua nemesi.
Dopo avergli rubato per anni fazzoletti da giacca, il suo “We miss You” alle telecamere nelle settimane di assenza forzata per Sager, fu un colpo duro per tutto il mondo appassionato di basket.
Al primo faccia a faccia dal suo rientro, la partita perse d’importanza quando il gelido Pop riuscì ad ammettere: “Per la prima volta sono contento di fare questa intervista ridicola, perché sei tornato”.
Sager non s’è mai arreso, anche quando gli era ormai chiaro che la leucemia voleva portarlo con sé ad ogni costo. Si è fermato, poi è tornato a fare il suo lavoro appena ricevuto l’ok dei medici; alle ultime NBA Finals, in barba a qualsiasi discorso di scuderia tra emittenti, è stato inviato dal campo per la prima volta in tanti anni di carriera in giro per il paese.
Giocatori, colleghi, star; tutti, dalla notizia della sua scomparsa, non hanno fatto mancare il loro pensiero, divertito e divertente.
Nell’anno in cui hanno appeso al chiodo le scarpette Kobe, Duncan e Garnett, la NBA ha perso anche lui, ma non potremo nemmeno vederlo seduto a bordo campo in una partita di cartello.
Siamo sicuri, però, che quella giacca sgargiante tra le tante mancherà più di tutti, ma lascerà un segno indelebile nella NBA di oggi e nel giornalismo moderno.
Avremmo apprezzato ancora a lungo tutte le sue fantasie e gli show personali con i giocatori di mezza Lega, ma il destino, nello sport così come nella vita, a volte non ha alcuno schema.
Grazie mille, Craig.