Boston Celtics: è un gioco per duri
“The game honors toughness”
Brad Stevens ci sa fare, anche a parole.
Assunto dai Celtics il 3 luglio 2013 dopo 13 anni (di cui 7 da vice) vissuti ad Indianapolis allenando i Butler Bulldogs con discreti risultati (tra le altre, due finali NCAA consecutive ed i suoi Bulldogs sono la squadra dell’università più piccola – solo 4500 studenti – ad aver mai preso parte ad una finale NCAA dell’era a 64 squadre), Stevens a soli 39 anni è già considerato uno dei grandi della lega. A pieno merito. In questi suoi primi due anni e 11 partite nella NBA, non ha avuto nulla di simile ad una squadra ed è stato bravissimo ad inventarsi un sistema di gioco funzionale, basato sui propri, discreti, assets.
6-5 che sabrebbe potuto essere 7-4, se non si fossero sprecati 18 punti di vantaggio sui Mavs nell’ultima gara giocata, quindi 4° posto potenziale, niente male per una squadra fondata su tanti giovani, tanti operai e priva di giocatori, forse escludendo Thomas, con un talento in grado di far vincere delle partite con delle giocate personali. Ora come ora i Celtics si trovano in 7° posizione in una Western Conference dove tutto è ancora da scoprire e dove, escludendo le prime 4 posizioni (Bulls, Cavs, Hawks e Heat – non necessariamente in ordine-.) ci sono 9 vere contendenti per 4 posti. Se altri due posti è ipotizzabile che se li giochino Wizards e Pacers, il cerchio si restringe ulteriormente.
Bisogna trovare una soluzione per sopperire alla quasi totale mancanza di talento (o costanza), soprattutto offensivo, nel roster: ed è qui che Stevens inizia la sua battaglia. La leggenda narra che, pochi giorni prima della trade deadline 2014, i suoi Celtics si trovassero in un albergo a Phoenix e che, indetta una riunione, il coach chiese alla squadra, che al momento occupava la 14° posizione nel defensive rating, di chiudere la stagione nella top 10 in questa particolare classifica. Ovviamente accadde il contrario, causa una squadra già pronta allo smantellamento, quindi i Celtics scivolarono nelle ultime posizioni, difensivamente (e non) parlando.
L’anno dopo la squadra cambiò radicalmente sia in estate, sia durante la stagione, ma Stevens e le sue idee rimasero ben salde su quella panchina. Difesa, difesa, difesa. Ai biancoverdi non servì altro per arrivare 7° ad Est e raggiungere i playoff. Questi però non vanno visti come un traguardo, bensì come un semplice inizio, perché la squadra, sempre con un gap di talento offensivo importante, ora se la gioca con quasi tutte le franchigie ed ha capito che la via è quella giusta.
“Qua si gioca duro ed a molti in questa Lega non piace, vorrebbero giocare soft. Non qui”. In questa frase di Jae Crowder si racchiude l’essenza Celtics targata Stevens. Ed è proprio l’ala da Marquette, insieme ad uno dei giovani di maggiore impatto della squadra, Marcus Smart, a formare il duo difensivamente killer della squadra. A questi due mastini (Crowder guida la lega con 3 rubate per gara, ndr) vanno aggiunti un discreto rim-protector come Amir Johnson ed un super rimbalzista, Jared Sullinger. Se poi dalla panchina esce Avery Bradley, difensore eccelso, più Jerebko-Turner, una coppia di ali che ti permettono di avere molta mobilità e di cambiare su (quasi) tutti, capisci che la situazione non va bene per caso, ma è stato tutto studiato dal giovane coach dell’Indiana. Proprio questa spiccata defensive-attitude è quella che ha condotto ai margini della rotazione un giocatore di qualità affermata come David Lee.
Perchè non si è parlato di Thomas? Sarà il classico buco difensivo capace di mettere la palla nel cesto? Tutt’altro. La guardia (pur sempre 5’9) è uno degli insospettabili, insieme a Kelly Olynyk, di questo roster, eppure la mini-point guard costringe i suoi avversari ad un 9.9% IN MENO dal campo quando tirano contro di lui (..si, all’inizio è difficile crederci), mentre il 7 piedi canadese ha addirittura il miglior difensive rating della squadra con un ottimo 85.1. Chi se lo sarebbe mai aspettato? Semplice, Stevens.
Se Boston ha una possibilità di fare bene questa stagione, la parola chiave inizia con “D” e finisce con “ifesa”. Niente fronzoli o show-time, solo lavoro e sacrificio. A parole e, per ora, a fatti, i ragazzi in bianco-verde sono i primi ad averlo capito e sono diventati una macchina genera-palle-perse-agli-avversari micidiale, con un approccio alle partite tutt’altro che banale, soprattutto se si pensa che si sta parlando sempre della 5° squadra più giovane della lega, o quarta se non si conta quel mucchio di rookies detto 76ers.
“What I don’t make up in weight, I make up in heart and balls, so it’s all good” disse Kevin Garnett.
Heart and Balls. Boston è nata per lottare e ce lo sta dimostrando ancora un volta. Con il cuore e con gli attributi. Sempre.