Bennett ma non solo: le peggiori scelte del Draft Nba
Il taglio di Anthony Bennett (poi accordatosi con il Fenerbache) da parte dei Brooklyn Nets (il terzo considerando le quattro casacche vestite dal prodotto di University of Nevada, più varie esperienze in NBDL) ha riacceso il dibattito: è davvero il nativo di Brampton, selezionato al numero 1 dai Cleveland Cavaliers al Draft del 2013, la peggiore prima scelta di sempre della Nba? Difficile dirlo con certezza. Del resto se il Draft è la scienza inesatta per eccellenza non si può certo pretendere di stilare delle classifiche sulla base della stessa. E’ però possibile elencare tutti quei giocatori che, in relazione all’hype e alle aspettative che li circondavano, hanno deluso sotto ogni aspetto. Ne abbiamo scelti dieci (ma ce ne sono molti di più), con storie diverse e, allo stesso tempo, uguali. Perché da potenziale stella a bust il passo è più breve di quel che si possa pensare.
Eddy Curry: epitome del centro potenzialmente dominante nella Nba (2.13 per oltre 130 chili) dei primi anni 2000, viene scelto alla #4 (prima di Zach Randolph e Tony Parker tanto per dirne due) dai Chicago Bulls nel 2001, poco dopo essere uscito da Thornwood High School. La prime due stagioni sarebbero anche positive (nel 2002/2003 a un certo è primo per percentuali dal campo) poi, però, subentrano dei gravi problemi cardiaci che lo fermano per i successivi due anni. Al suo rientro viene mandato senza tanti complimenti ai Knicks dove, tra infortuni continui ed i noti problemi di sovrappeso, gioca poco e male prima di finire a Minnesota nell’ambito dell’operazione che porta Anthony a New York. Il taglio è immediato, la scomparsa dai radar della lega progressiva, tra accuse di violenza sessuale nei confronti del suo autista e l’uccisione dell’ex moglie Nova Henry della figlia Ava da parte del procuratore Frederick Goings in circostanze ancora da chiarire completamente. Nel 2012 firma un contratto annuale con i Miami Heat con i quali “vince” il titolo, non disputando nemmeno un minuto di gioco e segnalandosi solo in occasioni così. L’esperienze similare e Dallas lo convince a cercare fortuna in Cina con i Zhejiang Golden Bulls (23 punti e 10 rimbalzi di media in 29 partite disputate) prima del definitivo ritiro.
Adam Morrison: a proposito di titoli vinti senza fornire sostanziali contributi sul parquet. Adam Morrison da Gonzaga, scelto da Michael Jordan (plenipotenziario dei Charlotte Bobcats) in persona alla #3 nel 2006 (subito dopo Bargnani e Aldridge e prima di gente come Lowry, Rondo e Millsap), ci mette poco a far pentire il più grande di tutti della sua scelta. Le basse percentuali dal campo e la difesa costeggiante lo portano ad essere scambiato con i Lakers, diventando spettatore privilegiato (dalla panchina) del back to back 2009-2010 prima di essere accompagnato all’uscita. Morrison prova poi anche l’avventura europea – con Stella Rossa e Besiktas – prima di tornare proprio a Gonzaga per laurearsi ed assicurarsi il posto di video coordinator della squadra per una stagione.
Kwame Brown: MJ, ineguagliabile su un campo da gioco meno fuori, vide queste due facce della sua medaglia coincidere quando, nel 2001, da giocatore e dirigente dei Wizards, avallò la chiamata di Kwame Brown alla (primo giocatore della storia Nba ad essere selezionato come prima scelta assoluta a un Draft). Venendo ripagato da 4.5 punti e 3.5 rimbalzi di media a partita e da una serie di prestazioni sconcertanti. Ci vollero tre stagioni e mezza di (pochi) alti e (molti) bassi e una serie di finti malanni per non allenarsi con i playoff 2005 incombenti per convincere i capitolini a sbolognarlo ai Lakers nella peggior versione post Three-Peat. A L.A. oltre a segnalarsi come compagno più odiato da Kobe Bryant insieme a Smush Parker, vive il suo momento di gloria quando, in un tentativo di scherzo mal riuscito a Ronnie Turiaf, colpisce con una torta un ignaro passante. Tornato sui suoi passi dopo aver tentato la fuga in limousine, offrirà all’inconsapevole vittima una cena al ristorante dello Staples Center. Da lì in poi tutto passerà in secondo piano, comprese le dimenticabili esperienze con Pistons, Sixers (due volte) e Warriors.
Michael Olowokandi: come dite? Troppa L.A. in gialloviola fino a questo momento? Tranquilli, cugini dei Clippers, ce n’è anche per voi. Nel 1998 il Draft offre nomi come Dirk Nowitzki, Mike Bibby e Paul Pierce ma i Clippers, being the Clippers, in possesso della prima chiamata assoluta, selezionano Michael Olowokandi, centro di origine nigeriana da University of the Pacific (chi?). Le sue ragguardevoli medie collegiali (oltre 20 punti e oltre 11 rimbalzi di media) subiranno immediatamente un crollo verticale, complice un grave infortunio che, nel corso della sua quinta stagione angelena, gli tarpa le ali quando finalmente sembrava sul punto di trovare una più che discreta dimensione. Dal 2003 al 2007 galleggia in un limbo di mediocrità e anonimato tra Timberwolves e Celtics prima di ritirarsi definitivamente all’età di 32 anni. Una breve storia trsite che ci riguarda anche da vicino: all’inizio del 1998/1999 con la Nba ferma per il lockout, Olowokandi venne a giocare in Italia con la maglia della Virtus Bologna.
Robert “Tractor” Traylor: eppure, nel 1998, c’è chi potrebbe aver fatto peggio dei Clippers. Cinque scelte sotto Olowokandi, infatti, i Dallas Mavericks selezionano Robert “The Tractor” Traylor da Michigan. In Texas, però, il nostro non metterà mai piede, visto che verrà scambiato per le scelte numero 9 e 19 dei Milwaukee Bucks. E alla #9 c’è un allampanato spilungone da Wurzburg con i capelli che fanno tanto boy band anni ’90: il mondo imparerà a conoscerlo presto come Dirk Nowitzki. Basterebbe questo e, invece, Traylor ci mette il suo in sette stagioni di sconfortante pochezza (Bucks, Cavs e Hornets) prima di girare il mondo passando per Messico, Spagna, Turchia, Italia (Napoli) e Puerto Rico. Nel 2011, poi, il dramma: un attacco di cuore lo stronca definitivamente all’età di 34 anni.
Darko Milicic: scegliere male al Draft del 2003 era impossibile o quasi. Basta consultare la lista. L’impresa riesce, però, ai Detroit Pistons che, dopo LeBron James e prima di Carmelo Anthony, chiamano alla #2 Darko Milicic. Uno che meriterebbe una menzione d’onore per essere guardato con sospetto da uno come Rasheed Wallace e che, più che per cifre e statistiche, in carriera si è segnalato per essere stato il più giovane ad aver disputato una Finale Nba (nel 2004, a 18 anni e 365 giorni). Ma soprattutto questa roba qui. Memorabili, poi, la sua ultima apparizione in maglia Pistons culminata con un airball di proporzioni epiche e le minacce a madri e figlie degli arbitri che, al termine del 2007, gli costarono l’esclusione saecula saeculorum dalla Nazionale serba. Il suo curioso tour Nba lo porterà a vestire le maglie di Magic, Grizzlies, Timberwoles (tramite scambio con Brian Cardinal….e niente, fa già ridere così) e Celtics, prima del ritiro nel 2013 per dedicarsi alla sua nuova carriera di kickboxer (oltre a quella di intrattenitore alle feste). E’ uno dei pochi motivi per i quali non vorremmo essere Joe Dumars.
Hasheem Thabeet: tra coloro i quali sono entrati nella storia dalla parte sbagliata, uno dei posti d’onore deve essere necessariamente riservato ad Hasheem Thabeet, 221 cm in olio d’oliva tanzaniano nonché prima scelta più alta dei sempre (#2 nel 2009) ad essere parcheggiato nella NBDL nel corso della sua stagione da rookie. E dire che, nell’ultima NCAA disputata con i Connecticut Huskies, era stato premiato come Big East Defensive Player of the Year e Big East Player of the Year, in una stagione da 13.6 punti, 10.8 rimbalzi di media e oltre 150 stoppate complessive. I Memphis Grizzlies non sanno letteralmente che farsene (appena 3 punti e 3.6 rimbalzi di media) e lo spediscono ai Rockets nell’ambito della trade che coinvolge Shane Battier: in Texas vede il campo in appena sette occasioni, prima di una nuova esperienza in D-League e del trasferimento ai Blazers prima e ai Thunder poi. Al momento è ancora free agent (ad anni 29) e l’impressione è che lo resterà ancora per un pò.
LaRue Martin (o della sfiga di Portland, parte I): probabilmente il primo bust di cui si abbia contezza. E’ il 1972 quando a due come Julius Erving e Bob McAdoo i Bl zers preferiscono LaRue Martin, promettente centro da Loyola, selezionato con la pick numero 1. Quattro stagioni dopo i punti di Martin, IN TOTALE, saranno 1430 (poco più di 5 a partita): vale a dire quelli che, un giocatore di medio livello, riesce a realizzare nel corso di una singola annata. Ma se il giocatore è stato quello che è stato, l’uomo merita un approfondimento: resosi contro che il basket professionistico non faceva per lui (non prima di aver attraversato il canonico periodo buio fatto di depressione e alcolismo), riesce a costruirsi una rispettabilissima carriera da lavoratore della UPS. Non proprio una cosa di tutti i giorni se è vero, come è vero, che dopo aver toccato il cielo con un dito, tornare alla normalità non è mai semplice.
Sam Bowie (o della sfiga di Portland, parte II): al Draft del 1984 i Blazers sono in difficoltà. I Rockets hanno appena chiamato con la prima scelta assoluta Hakeem Olajuwon, spettacoloso centro nigeriano dall’Università di Houston. A questo punto il dilemma: in Oregon devono necessariamente rinforzare il reparto lunghi, eppure c’è ancora disponibile questo Michael Jordan da North Carolina che qualcosa ha lasciato intravedere. Pochi secondi e via: si va su Sam Bowie, centro da Kentucky. Come potete immaginare la storia ha dato clamorosamente torto ai Blazers: non tanto (e non solo) per quel che avrebbe fatto MJ quanto, piuttosto, per la parabola cestistica dello stesso Bowie. Dopo una prima stagione discreta (ma nulla più), gli infortuni in serie ad entrambe le gambe, lo porteranno a disputare appena 62 partite dal 1985 al 1989. Poi, come per un’atroce beffa del destino,il passaggio ai Nets (quattro stagioni dal 1989 al 1993) coincideranno con il picco di carriera di Bowie, con poco meno di 13 punti e poco più di 8 rimbalzi a partita. Nulla di che rispetto alle attese, ma nemmeno il disastro ammirato nella Rip City. Che, però, non aveva ancora chiuso i conti con la malasorte…
Greg Oden (o della sfiga di Portland, parte III): di lui abbiamo già parlato qui. Una breve storia triste (cit.) di quelle che finisci con l’empatizzare con e per il protagonista. Soprattutto quando è lui stesso a definirsi come “il più grande bust di tutti i tempi”, in una presa di (auto)coscienza coraggiosa e fin troppo severa. Ultimamente pare abbia ripreso gli studi per laurearsi e trovare qul pizzico di normalità che gli è sempre mancato. Se lo meriterebbe, davvero. In bocca al lupo.