ANDRE IGUODALA - L'MVP che non ti aspetti
Alzino la mano quanti avrebbero scommesso in un titolo di MVP delle Finals al di fuori del duo Curry-James. E quanti pensavano ad un Andre Iguodala tra i papabili? Non dico nessuno, ma pochissimi di sicuro, lui no di certo. Tutt’al più in una stagione dove, per ragion di “patria”, si è adattato al ruolo di sesto uomo di lusso, in un roster che da promettente qual’era, è sbocciato nel magnifico fiore che abbiamo ammirato per tutta la stagione, fino al meritatissimo riconoscimento del Larry O’Brien Trophy. Ma torniamo al prodotto di Arizona University. Mai era successo che l’MVP delle Finals fosse un giocatore MAI partito nel quintetto titolare in regular season, e, inoltre, non accadeva dal 1978 che l’MVP della serie decisiva non avesse la doppia cifra di media, in quanto a punti a referto, sempre guardando alla stagione regolare (Wes Unseld, Washington Bullets).
Insomma, dopo la premiazione di Kahwi Leonard, al termine delle Finals 2014, per il secondo anno di fila viene riconosciuta l’importanza dei gregari; quelli che, usando un paragone ciclistico, permettono, in un modo o nell’altro, le imprese dei capitani, dei grandi campioni. Questo perché, quanto più si è “soli sull’isola”, tanto più vincere diventa maledettamente difficile. Occhio, però, a bollare questa designazione come una stravaganza o una voglia malcelata di andare controcorrente da parte della giuria, rispetto alla vox populi che indicava come MVP delle Finals Steph Curry, il simbolo di questa squadra fantastica, oppure LeBron James, come tributo, onore delle armi dopo una serie vissuta a medie inumane. Anche se non si è fini conoscitori del gioco, non può sfuggire come sia stato il ragazzo di Springfield, e tutta la second unit di Golden State, a far girare la serie, soprattutto nei momenti più difficili, quando Curry&co sembravano una truppa spaesata, in balia dell’agonismo feroce dei vari Dellavedova, Thompson, Mozgov, assolutamente impotenti nei confronti del Re, privi delle certezze e dei meccanismi che durante l’anno ne avevano fatto una vera macchina da punti.
I meriti di Iguodala aumentano esponenzialmente quando andiamo a pensare quale ingrato compito coach Kerr gli ha affibbiato: provare a marcare (pardon, a contenere) LeBron James. Vero, più di una volta il #23 dei Cavs l’ha avuta vinta, contando sulla sua prepotenza atletica; ma quando ha avuto addosso il #9 ex Sixers e Nuggets, LeBron ha faticato maledettamente di più che con gli altri. Iguodala ha difeso come se fosse una questione di vita o di morte, come se non ci fosse un domani, togliendo il respiro all’avversario, provando a sfruttare tutte le sue doti da grande difensore, oltre a malizie tipiche della sua esperienza, che a certi livelli non guastano mai. Una grande prova di lucidità e carattere da parte di Iguodala, che ha ridato linfa vitale anche ai compagni, che nelle interviste post Gara-6 ne hanno sottolineato il ruolo di leader prima di tutto carismatico all’interno dello spogliatoio.
Il fresco vincitore del Bill Russell Award, però, ha dato un contributo insospettabile anche nella metà campo offensiva. I 25 punti con i quali ha marchiato a fuoco la sfida decisiva di queste Finals, sono l’apice di una serie che lo ha visto tornare grande protagonista. Questa prestazione gli è valsa addirittura il season-high, migliore performance dal 4/11/2013, quando rifilò 32 punti alla sua ex squadra, i Sixers. Già in Gara-4, punto di svolta della serie con Kerr che opta per il quintetto “basso”, Iggy aveva messo a referto 22 punti, meglio dei 21 realizzati nel corso della stagione regolare (il 18/3 vs Hawks e il 24/3 vs Blazers). Nelle sei sfide contro i Cavaliers, Iguodala ha messo in campo queste statistiche, in 36.8 miunti di impiego medio: 15 punti (6/8 dal campo) in Gara-1; 7 punti (3/5 dal campo), 6 reb e 5 ast in Gara-2; 15 punti (6/12 dal campo), 5 reb e 5 ast in Gara-3; 22 punti (8/15 dal campo) e 8 reb in Gara-4; 14 punti (5/11 dal campo), 8 reb e 7 ast in Gara-5; 25 punti (9/20 dal campo), 5 reb e 5 ast in Gara-6. Per un totale di 16.3 punti (52.1% dal campo, 40% dall’arco), 5.8 reb e 4.0 ast. Un giocatore che si è assunto le sue responsabilità, non facendosi spaventare neanche quando qualche tiro di troppo non entrava, o dalla sua imprecisione ai liberi, culminante con quel 2/11 in Gara-5. Risultando anzi decisivo quando, sfruttando i continui raddoppi di Cleveland su Curry e il giro palla dei suoi compagni, si è trovato più di una volta ad infilare triple dal peso specifico enorme, manifestando, con quella mimica facciale tutta sua, la soddisfazione del momento.
Tornando al discorso iniziale, l’assegnazione del premio ad Iguodala può essere visto anche in un altro modo, ovvero sia come riconoscimento di squadra, a tutti i componenti del roster dei Figli della Baia. Un team che, nonostante la presenza di una supernova come Curry, ha vinto prima di tutto con il collettivo, coinvolgendo quanti più giocatori possibile nella rotazione. E’ un premio che, di rimando, nobilita l’apporto dei vari Barbosa, Livingston, Ezili, “gregari” che hanno risposto presente quando sono stati chiamati in causa, facendo pesare meno la serie difficile di Klay Thompson, gli alti e bassi di Green, la progressiva scomparsa dal quintetto del duo Bogut-Speights.
Ecco perchè, lungi dall’essere un premio caduto in testa ad un giocatore passato lì per caso, l’MVP delle Finals di quest’anno va ai Warriors in toto, vincenti non grazie a qualche stella e poco altro, ma con il gruppo. Un insieme di uomini forgiato da un front office giovane e capace, guidato dal GM Bob Myers, le cui radici (come Curry ricorda spesso) affondano nel lavoro di Mark Jackson, del quale Kerr ha saputo raccoglierne l’eredità, portandolo al salto di qualità decisivo. Un gruppo che, vista l’età anagrafica dei suoi principali protagonisti, ha tutti i requisiti per instaurare una nuova Dinastia nella Lega.