Ain't gonna lose
Si leva alto il coro delle 20.562 anime che come sempre riempiono una straripante Quicken Loeans Arena: “MVP! MVP! MVP!” e non andiamo molto lontano da lì per definire LeBron Raymone James. La nostra storia, però, inizia qualche ora prima della palla a due di gara 6, il secondo matchpoint a disposizione sulla racchetta dei Warriors. La solita postazione di leggende prestate alla straordinaria macchina mediatica americana conta questi signori: Paul Pierce, che affianca a bordo campo l’esordiente Craig Sager, i cugini di una stirpe di volatili come Vince Carter e Tracy McGrady, Bill Russell, la cui presenza è vincolata alla consegna dell’MVP delle Finals, Chauncey Bbillups alias Mr. Big Shot e infine Mike Miller. In un certo qual senso, anche se non in maniera diretta, c’è un legame, un rapporto tra tutte queste personalità e James ma se il Re dovesse scegliere un vero amico tra questi, sceglierebbe senza ombra di dubbio Michael Lloyd Miller, più comunemente noto come Mike. La loro amicizia nasce negli anni passati, sin dalla prima stagione vissuta insieme a South Beach. I due legano in maniera incredibile, con James che definisce l’ex Grizzlies come uno dei migliori amici di spogliatoio di sempre. Arriveranno presto le dichiarazioni di un affetto contraccambiato da parte di Miller che, a differenza di altri, si spinge oltre: affermerà che in un certo qual senso l’unico con cui si confida il figlio di Akron è proprio lui. Il ruolo di “confidente” rimane negli anni, anche quelli in cui non si condivide lo stesso spogliatoio, e l’ex #13 Heat, autore di un memorabile 7/8 da 3 in occasione di gara 5 contro OKC delle Finals 2012, non si è mai tirato indietro nel dare giudizi sull’operato e sul gioco dell’amico LeBron. La stampa, messa al corrente della situazione, sta utilizzando come special commentator Mike Miller in queste NBA Finals. Ed eccoci tornati a qualche ora dalla tip-off, quella che apre le danze a gara 6. Ai microfoni di ESPN il prodotto dei Gators si lascia andare ad una frase che può sembrare banale, scontata ma che in realtà la dice lunga su molti aspetti della loro amicizia: “He ain’t gonna lose“, letteralmente “Non ha intenzione di perdere“.
Partiamo da qui, da queste parole per cercare di capire nei limiti umani (sconosciuti quindi da James) cosa passa nella testa di LeBron prima, durante e dopo gara 6. Le parole di Mike Miller non raccontano nulla o quasi prima dell’inizio della gara ma quando si comincia a far sul serio valgono oro. James è reduce da 15 elimination game nella sua carriera (con quello di gara 6 arriva a 16) e le sue cifre sono regali: i suoi 32.2 di media quando l’asticella si alza ulteriormente dovrebbe farvi capire di che razza (aliena) di giocatore stiamo parlando. Inzia bene e con fiducia anche questa gara, dimostrando di essere in pieno controllo del suo gioco rispetto a quanto dimostrato nei primi 3 episodi della serie, dove anche il semplice ball handling gli risultava difficile. Riesce perfettamente ad unire la leggerezza di chi sa che ha di fronte un avversario storicamente ostico e la consapevolezza di portare sulle spalle un burden (fardello) dalle dimensioni bibliche. Il piano partita resta quello: si iniziano a cercare compagni come Kyrie Irving, JR Smith, un pizzico in meno Kevin Love, Tristan Thompson per cercare di metterli in ritmo perchè anche il Re sa che da solo non può nulla. Fase di rodaggio su chi si può effettivamente fidare e poi via con “another day in the office” direbbero dall’altra parte dell’oceano. L’ufficio è il pitturato, dove LeBron continua ad avere percentuali altissime, con o senza Bogut, con o senza Draymond Green, fattore nullo per impatto sulle due metà campo nell’ultimo incontro. Non ha intenzione di perdere e lo dimostra da subito, cominciando a mettere quei jumper dalla media-lunga distanza che ancora occupano uno spazio rilevante negli incubi di coach Popovich. Anche il canuto allenatore degli Spurs scommise sulle basse percentuali di LeBron dal midrange e, ancora una volta, James dimostro la “volontà di non perdere” e così fu. Secondo anello. Coach Kerr prova a scegliere il male minore ora che LeBron ha alzato le sue percentuali, preferendo ancora sfidarlo da fuori anzichè invitarlo a mettere i piedi in area. E poi c’è il resto, perchè ci saranno stati anche i 41 punti e l’ennesima tripla-doppia sfiorata, ci saranno stati anche gli 11 assist (di cui un paio da fantascienza), ci sarà stato anche il 59.2% dal campo ma quello che raccontano gli occhi (quelli che vedete in foto), quello che racconta il linguaggio del corpo di un uomo in missione dicono tutto quello che realmente c’è da sapere, traducono perfettamente il concetto di Mike Miller. Potremmo continuare a sviolinare numeri fino all’inizio di gara 7, ricordandovi i suoi 27 punti nel solo secondo tempo, dei suoi 18 punti consecutivi segnati per i Cavs, delle sue posizioni in ogni classifica delle voci statistiche di questa serie ma servirebbe a poco. Sarebbero cose che potremmo rivedere in futuro, in altri giocatori. Quello che non possiamo rivedere in nessun altro giocatore sono proprio quegli occhi, quella forza non di stabilire a parole la propria legge ma quella di imporla, di trasformarla in qualcosa di reale. Queste cose non vanno nelle statistiche e solo chi vive a 360° lo sport più bello del mondo può comprendere il peso delle componenti fisiche e mentali di James.
La sfida con Curry richiederebbe un capitolo a parte, perchè le due superstar (rispettivamente numeri 1 e 2 della lega, lasciamo a voi la scelta della posizione) stanno dando vita ad una serie epica che culminerà in una gara 7 giusta per i valori e i numeri (610 pari dopo le prime 6 gare, per la prima volta nella storia) dimostrati. Hanno più volte provato a metterli contro ma quello che emerge dalle ultime due gare è che Curry, a differenza di LeBron, non sembra essere completamente pronto ad affrontare una pressione gigantesca, scadendo in un eccesso di aggressività e nervosismo deleterio per la squadra, soprattutto nella metà campo difensiva. La metà campo difensiva. Non ne abbiamo parlato e non se ne parla mai abbastanza dal lato LeBron Raymone James perchè fanno molta più risonanza i 41 punti, i 27 tiri o gli 11 assist. Il dato sconcertante è quel +26 di plus/minus nei 43 minuti che gioca, tenendo conto che quell’indicatore statistico tiene presente tanto dell’attacco quanto della difesa. Marca Green ma cambia con Curry, riesce a stare con Thompson e a tratti con Bogut, guidando la classifica della serie anche alla voce “stoppate”.
C’è poco altro da aggiungere. Noi stiamo con Mike Miller e con quel concetto che sembra tanto banale e che alla fine banale non è. Lunga vita al Re, comunque vadano queste Finals.