ACCADE OGGI, 5/1/1988: a Pasadena, CA, su un campo da gioco muore Pete “Pistol” Maravich
Il viaggio di oggi, lo ammettiamo, è triste, davvero triste per chi ama la palla a spicchi. Ma, come sempre, ci piace partire da lontano, per farvi vivere più intensamente possibile questa storia, con uno sguardo prima al passato e poi all’immediato attimo dopo l’evento che vi stiamo per raccontare. Partiamo da quest’ultimo: se siete amanti di Robert Zimmerman, più noto come Bob Dylan, conoscete la canzone Dignity, incisa nella notte tra il 5 e il 6 gennaio del 1988. Testo forte, come in ogni canzone della star del Minnesota, e con un significato particolare, dedicato proprio al nostro protagonista: Peter Press Maravich, ma per tutti Pistol Pete. Era mattina quando Bob Dylan apprese tramite radio la notizia della scomparsa del suo giocatore preferito, era con sua zia e, incredulo, ricordava tutte le giocate che gli vide fare una delle tante sere in cui Pistol dava spettacolo. Non poteva essere vero, no. Un uomo del genere non può andarsene così, con così poco clamore. Andava onorato, come si fa con i veri idoli della propria infanzia. Quella notte fu incisa “Dignity” (https://www.youtube.com/watch?v=gSy267PTSnY). Cosa spinse quella sera Robert o Bob che sia a scrivere quella canzone commemorativa non è importante, ciò che più conta è quello che Pete aveva lasciato dentro i cuori di tutte quelle persone che almeno una volta lo avevano visto con una palla in mano. Passo indietro, di circa 24h. Da casa della zia di Zimmerman ci spostiamo nell’estremo sud della California, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, a Pasadena. Nella scuola di un ginnasio vecchia maniera, legato alla Chiesa del Primo Nazareno, sta disputando, su invito probabilmente di James Dobson, giornalista di Focus on the Family, una partitella in cui si vede la doppia natura di Pistol Pete. Da un lato ancora in grado, a 40 anni, di comporre sonetti su un campo da basket, di stupire chi non riesce a staccare gli occhi da lui, dall’altro una persona che non ha più reali contatti col mondo terreno, che ha dedicato le ultime battute della sua vita alla conversione totale al cristianesimo e all’idea che l’ufologia fosse fondata e che, prima o poi, saremmo andati incontro ad una nuova civilizzazione. Questo dualismo, che lo ha accompagnato duranti gli ultimi 5 anni della sua vita, non lo ha reso meno straordinario, anzi. Questa sua capacità di vivere due mondi diversi lo ha reso ancor più speciale, anche se agli occhi di qualcuno poteva sembrare del tutto lunatico. Saranno sue le parole “I want to be remembered as a Christian, a person that serves Him [Jesus] to the utmost, not as a basketball player” (Voglio essere ricordato come un cristiano, una persona che ha servito Gesù al massimo, non solo come un giocatore di basket). No, come ripeteva Bob Dylan, non può essere. Non poteva finire. Dopo qualche giro difensivo di riposo, qualcuno urla “Water break!”, per rifiatare. Come in ogni palestra c’è la solita fontanina, dove basta premere un pulsante per veder saltar fuori un getto d’acqua. Stando a quello che hanno raccontato i presenti, fortunati come pochi, Dobson udì le ultime parole di Pete: “Pete come ti senti?” chiese James. La risposta fu immediata: “I feel great, sto benissimo!”. Ecco, quelle furono le sue ultime parole. Qualche attimo dopo, vicino a quella stessa fontanina, cade a terra, senza vita, vittima di un’insufficienza cardiaca. Sarà la sua ultima caduta, quella più importante, quella più brutta. L’autopsia rivelerà, però, una delle cose più sconcertanti. La sua morte non è dovuta ad un “semplice” infarto o come lo abbiamo definita prima. Il dottore che lo ispeziona non conosce Pete Pistol e non crede alle parole dei cari quando gli spiegano che era un Pro Basketball. Con la dovuta cautela, il dottore spiega alla moglie Jackie e ai figli che Pete è stato un miracolato, perché ha vissuto 40 senza l’arteria coronaria sinistra. Per gli altri esseri umani, escludendo Maravich quindi, il tempo di vita stimato è di 8 anni. Non appena l’arteria coronaria destra non ha retto, il cuore, il grande cuore di Pete Pistol si è fermato.
Si è fermato su un campo da basket e non poteva essere diversamente. Così come i soldati cadono sul campo di battaglia, così come i pugili si accasciano sul ring, così il cuore di Pistol ha smesso di battere su un parquet lucido, pulito, come ai vecchi tempi in cui gioca a LSU. C’era quando è stato inserito nella Hall of Fame ma non c’era quando è stato inserito tra i migliori 50 giocatori di sempre. A ricevere quell’onorificenza c’erano gli stessi figli che ascoltarono quelle parole dal dottore. Ci furono due scene estremamente toccanti: la prima è con Isaiah Thomas, la seconda è con Magic Johnson. Il playmaker dei Detroit Pistons, nel sottopassaggio, fermò i figli di Pete e gli disse: “Volevo dirvi che ogni mio movimento sul campo è stato ispirato da vostro padre”. La stessa cosa fece Magic che ammise: “I miei grandi Lakers sono stati chiamati la squadra dello Show Time. Ma il vero Show Time era il vostro papà”. Ad entrambi gli All Star non fu dato nulla più di un semplice “Grazie”.
Ed è lo stesso GRAZIE che noi rivolgiamo agli dei del basket, al papà Peter detto Press, alla mamma Helen, a chi lo ha forgiato, a chi ha creduto in lui, a chi gli ha permesso di giocare ed insegnare che cos’è la pallacanestro. Grazie Pete, ti saremo sempre riconoscenti. Non lo dimenticheremo mai!