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73-9 vs 1-32

Accade invece che, quando ci si trovi in disaccordo su qualche punto, e quando l’uno non riconosca che l’altro parli bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l’altro parli per invidia nei propri confronti, facendo a gara per avere la meglio e rinunciando alla ricerca sull’argomento proposto nella discussione“. Prendiamo solamente in prestito le parole di uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica come Socrate per far chiarezza prima ancora di iniziare a discutere di pallacanestro. Si leggono troppo spesso, specialmente in questo periodo, delle posizioni in cui bisogna sempre scegliere: sei lo yin o sei lo yang? Sei chiaro o sei scuro? Sei questo o sei quello?
Ma dove nasce questa continua voglia di schierarsi da una parte e di odiare quella che non si è scelta? La cosa, soprattutto se in ambito sportivo, ha davvero poco senso. Prendere una posizione, rimanere coerenti, portare avanti una propria tesi è umano, giusto e soprattutto doveroso. Quello che rovina spesso le cose è l’eccesso, è lo spingersi oltre. Lo sport è anche questo: è dialogo, è confronto. Non è solo James contro Curry, Warriors contro Cavaliers, non è solo il significato più stretto di basketball. Chi, come spiega Socrate, rinuncia alla ricerca sull’argomento proposto nella discussione per invidia o solo perchè non si è dalla stessa parte, ha già perso. Anche quando ci accingiamo, come nel nostro caso, a confrontare due imprese sportive, due capolavori relativi alla parte forse meno importante della storia (ma pur sempre storia) bisogna essere aperti ad ogni tipo di argomentazione portata da una delle due parti in considerazione, lasciando spazio di discussione sempre a chi è disposto a sedersi ad un dibattito completamente aperto. Se non ci sono queste premesse, parlare di sport (o di qualsiasi altra cosa) risulta essere estremamente difficile.

Abbiamo iniziato citando Socrate e continuiamo sulla falsa riga delle citazioni per arrivare al punto in cui vogliamo arrivare. Le parole che seguono sono state pronunciate da un’icona trasversale, forse la più importante per valori trasmessi, del XX secolo. Stiamo parlando di Cassius Marcellus Clay Jr., più noto con il nome di Muhammad Alì (adottato nel 1975), che disse: “Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre. Impossible is nothing“. Le parole di The Greatest sembrano essere cucite addosso alle squadre che hanno partecipato alle NBA Finals 2016. Il concetto di impossibile è qualcosa che hanno stravolto sia i Warriors sia i Cavaliers, facendo la storia a proprio modo. Sono due eroiche gesta che accadono all’interno dello stesso anno sportivo, un evento eccezionalmente raro. Procediamo con ordine.

73-9 don’t mean a thing without the ring? – Lo slogan su quella che in tanti definiscono l’incompiuta stagione dei Golden State Warriors potrebbe essere questo, prendendo in prestito la frase che usarono i Chicago Bulls del record di vittorie (72-10) durato 20 anni come motivazione aggiuntiva per affrontare una delle edizioni più dure dei playoff. Esistono tanti record che ad oggi gli esperti credono non siano battibili e neanche lontanamente raggiungibili: i punti in carriera di Kareem, gli assist del muto da Utah, i rimbalzi e gli anelli di Bill Russell. Eppure quello che sembrava il più incredibile record di vittorie in RS è stato superato, quasi a voler dimostrare che l’impossibile non è una regola ma soltanto una nuova sfida. Il percorso dei Warriors, indipendentemente da come sia andata a finire la stagione, è una di quelle cose che capita una volta sola: il 5 dicembre GS vince con i Raptors (112–109) per siglare la miglior partenza di sempre, 21-0, in una stagione sportiva professionistica americana (comprendendo tutte le major league);  l’11 dicembre arriva la vittoria con Boston (124–119 dopo 2OT) e con essa la seconda miglior striscia di vittorie consecutive a quota 24 (resistono a 33 i Lakers); la striscia termina contro i Bucks la gara successiva, perdendo a Milwaukee per 108–95; i Warriors terminano l’anno solare 2015 con un incredibile 72-12 (.857), la seconda miglior percentuale di vittorie di sempre (includendo le gare dei playoff 2015 si arriva a 88–17); si arriva all’All Star Break e nessuna squadra prima d’ora era arrivata alla “sosta” con un record di 48 vinte e solo 4 perse; il 22 febbraio Golden State vince contro gli Hawks e diventa la squadra più veloce a raggiungere le 50 vittorie in regular season, riuscendoci in appena 55 gare disputate; passano 5 giorni, è il 27 di febbraio, e la vittorie contro OKC alla Cheesapeake Energu Arena, la 29esima vittoria esterna (nuovo record di franchigia); in quella stessa gara si qualificano matematicamente ai playoff, diventando i più veloci a farlo (58 partite); il 3 marzo i Warriors vincono la loro 44esima partita casalinga (ancora contro i Thunder) pareggiando il record dei  Bulls 95-96; 7 marzo e nuovo appuntamento con la storia perchè le vittorie in casa consecutive diventano 45, registrando il record NBA ogni epoca; il 14 marzo arriva la vittoria sui Pelicans, la numero 60 in stagione (i più veloci anche ad arrivare a questo numero con appena 66 partite giocate); 21 marzo, vittoria a Minneapolis, la 31esima fuori casa (solo 8 squadre c’erano riuscite prima); Golden State tira discretamente da 3 e batte il record di triple in stagione (933 dei Rockets); il 30 aprile arriva la 68esima vittoria in RS contro i Jazz (103-96), record di franchigia; 1 aprile, potrebbe essere uno scherzo ma non lo è perchè GS perde la prima gara casalinga contro i Celtics (109-106) mettendo fine alla striscia di 54 partite consecutive vinte (prima sconfitta dal 27 gennaio 2015); il 7 aprile arriva la vittoria con i rivali di conference, i San Antonio Spurs, la numero 70 della stagione (la seconda squadra a riuscirci); il 10 aprile è il giorno in cui si “pareggia” la storia perchè arriva la vittoria numero 72, proprio come i Bulls del 95-96; in trasferta continuano i miracoli e la vittoria all’AT&T Center interrompe una striscia di vittorie casalinghe Spurs che durava da 33 gare (l’ultima così lunga in Texas era data 1997); il 13 aprile è il giorno in cui si fa la storia perchè arriva la vittoria numero 73 contro i Grizzlies (125–104), riuscendo a battere il record che sembrava impossibile dei Bulls (finiranno con 73–9). Se vi siete persi la “Strenght in numbers” dei Warriors negli ultimi due anni, questo resoconto non è neanche la metà dei traguardi che hanno raggiunto. Già, perchè poi ci sarebbero tutti i record individuali (vedi triple di Curry, degli Splash Brothers, delle triple doppie di Green, delle vittorie di Kerr, di Luke Walton) e in più quelli di squadra (30+ assist a partita per quasi 40 gare di fila, tanto per dirne uno). La grandezza dell’impresa della Dub Nation si misura esattamente in numeri, quei numeri sui quali si basa la forza di una squadra come non ne passeranno più, una squadra che ha completamente cambiato l’idea comune di NBA Basketball, fatta di lavoro sporco, di lunghi dominanti e di ruoli ben definiti. Coach Kerr, che in termini di maestri di sport ha avuto Phil Jackson e Popovich, ha avuto il coraggio di osare, di prendere una strada mai intrapresa da nessuno. Poi ci sono i giocatori, quelli che hanno reso possibile una cosa che sembrava impossibile: c’è Steph Curry, il bi-MVP della lega, con un’altra stagione da 30 di media (con il 45% da 3 e la bellezza di 402 triple realizzate); c’è Klay Thompson, una macchina quasi perfetta stilisticamente parlando, trascinatore nei momenti più difficili della stagione; c’è Green che sfiora la tripla doppia di media (14 punti, 9.4 rimbalzi e 7.4 assist). C’è tutto in una stagione che nonostante il finale va appesa in parete, per ricordare a tutti che “l’impossibile è solo una sfida“.

Through adversity to the stars – Se riflettete bene l’avete già sentita questa frase. Probabilmente dobbiamo ringraziare ancora una volta Wired (i microfoni che registrano le voci dei giocatori in campo) perchè è grazie a questo meccanismo che possiamo rintracciare l’emittente. Si tratta di Dwyane Wade e del suo rituale prepartita nei playoff dei suoi Miami Heat. Il momento in spogliatoio (o immediatamente fuori) era territorio di James ma quando si entrava il campo è Mr. 3 ad occupare la scena: “Nothing’s difficult. Everything’s a challenge. Through adversity to the stars. To last minute, to last second, to last minute. We fight! We fight! We fight!“. Rapportato questo tipo di citazione (direttamente da Red Tails, film di Anthony Hemingway) al momento in cui Cleveland realizza di aver vinto il titolo NBA, tutto sembra molto più chiaro. Quella frase sembra cucita alla perfezione addosso a chi ha partecipato a quello che per definizione può essere definito un “evento storico” perchè mai nessuno c’era riuscito finora. Vorremmo, per par condicio, sviolinare gli stessi record che abbiamo evidenziato per Golden State o meglio vorremmo offrirvi una lista completa di chi è riuscita a fare la stessa identica impresa dei Cavs ma leggereste solo un enorme spazio bianco. E la solitudine di quell’1 davanti alle precedenti 32 sconfitte a rendere le Finals dei Cavaliers così speciali, forse anche al di là di quello che significa riportare un titolo sportivo a Cleveland dopo la bellezza di 52 anni. LeBron James e Kyrie Irving, coadiuvati da compagni di squadra stavolta pronti a fare il proprio, hanno dato vita a qualcosa che non era immaginabile, che era per tutti “impossibile” per dirla alla Muhammad Alì. Qualcosa di impossibile è stato fatto, la sfida è stata vinta, proprio come hanno fatto i Golden State Warriors: porsi un obiettivo (difficile) e raggiungerlo, senza mai guardarsi indietro. Alla Quicken Loans Arena si sono viste in tante occasioni delle t-shirt con su la scritta “Ohio against the world“, quasi a voler sottolineare che il mondo intero ce l’abbia con Cleveland, con l’Ohio, con i Cavs. E’ stata anche la vittoria contro ogni tipo di logica e contro ogni tipo di “maledizione” che vigeva sul lago Erie. E ancora LeBron che a fine gara, in lacrime, continua a ripetere “Against all odds” (contro ogni probabilità), come cantava in uno storico brano Phil Collins. Non scendiamo qui nelle disquisizioni tecniche di una serie per certi versi più spettacolare delle ultime 5/6 edizioni ma ci soffermiamo sul fatto di quanto quel numero 1 sia quasi più pesante di quel 73, di quanto la matematica a volte inganni. Come può 73 essere minore di 1?

La propensione al confronto è una caratteristica innata degli essere umani senzienti, desiderosi sempre di paragonare X e Y per poi decidere quali dei due sia il migliore. Quale impresa sportiva, allora, è più incredibile? Vincere la regular season con un numero di vittorie mai raggiunto da altri, stracciando tutti i record possibili ed immaginabili, oppure regalarsi il primo titolo in questo modo, recuperando dall’1-3 dopo che nelle precedenti 32 volte il deficit non era stato mai colmato? La domanda vale forse qualcosa in più di un milione di dollari ma noi, a questo punto, lasciamo a voi le più grandi discussioni filosofiche del caso e ci godiamo due meravigliose squadre, entrambe nella storia per motivi differenti. Grazie Warriors per il 73-9, grazie Cavs per aver dimostrato che basta anche un 1 per arrivare in paradiso.

 

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone