ROAD TO THE FINALS - Perché vince Golden State
Tutto è partito da qui:
E’ da questo momento, da quando si consumò uno dei più clamorosi upset della storia del gioco, che il sottoscritto (e penso tanti di voi) ha cominciato a credere che ci si trovasse di fronte alla più inconfessabile delle utopie, al desiderio più nascosto di ogni appassionato di sport. Che bello volesse dire anche vincente, che l’estetica riuscisse a sposarsi con il concetto, dicotomico e contrapposto, di efficacia. Perché, fino ad allora, lo script cui avevo assistito era sempre lo stesso: non vincono i più belli, vincono i più forti. Quelli che non si curano dello spettacolo che offrono, ma badano alla sostanza, al risultato, al raggiungimento dell’obiettivo. Che poi è il fine ultimo di ogni competizione, ma che bello sarebbe arrivarci percorrendo incantati sentieri panoramici piuttosto che una noiosa e rigia via dritta.
Questo pensavo. Poi arrivarono loro: ‘il Barone’, ‘Captain Jack’, “J Rich.” a dimostrarmi e dimostrarci che l’utopia era possibile, che il sogno poteva diventare realtà. E poco importa che quella corsa, bella e impossibile, si sarebbe arrestata al turno successivo contro gli Utah Jazz. Era solo questione di tempo: quello necessario a Stephen Curry per passare da imberbe matricola di Davidson all’iradiddio che oggi tutti conosciamo.
Di acqua ne è passata sotto i ponti. Sono arrivate stagioni buone, discrete e disastrose. Senza, però, mai perdere il filo conduttore: il risultato da raggiungere passa per lo spettacolo che si offre fuori e dentro il parquet. Dalla meravigliosa marea gialloblù dell’Oracle Arena fino alle grandinate degli ‘Splash Brothers’, passando per la run and gun di d’antoniana memoria resa tremendamente efficace dalla contemporanea presenza di alcuni tra i più grandi tiratori della storia del gioco.
Le Finals 2015 sono, idealmente, la chiusura di un cerchio iniziato proprio nel 2007. Steve Kerr sta per portare a compimento quella visione che Don Nelson prima e Mark Jackson poi hanno condiviso con alterne fortune, ma guardando sempre nella stessa direzione. Ed ora che ci troviamo di fronte ad una delle squadre migliori della storia Nba su singola stagione e, contemporaneamente, ad un sistema tra i più belli ed ingiocabili degli ultimi vent’anni, sarebbe davvero un peccato mortale fermarsi ad un passo da un traguardo che i figli della Baia hanno dimostrato di meritare più di ogni altro. Sono i più forti, i più continui, quelli che offrono uno spettacolo che appaga occhi, intelletto e anima. Mai come ora ci troviamo di fronte a una serie di meriti oggettivi e ineluttabili, proprio come la bellezza del rilascio del numero 30 uscendo dai blocchi. Non si discute, si ama e si applaude. Perché uno spettacolo del genere passa una volta ogni tanto e non vederlo scritto a fuoco nei libri di storia sarebbe un peccato mortale, imperdonabile. Un’ingiustizia bella e buona.
E non ce ne voglia il conterraneo di Steph, che pure meriterebbe un anello a sugello di una scelta coraggiosa che in pochi avrebbero fatto. Se lui è in missione, lo sono anche i Warriors. Quarant’anni sono un’eternità. E’ ora di rimettere le cose a posto, riscrivere la storia e dimostrare che si può credere nelle utopie. Stavolta i più belli devono essere anche i più vincenti.
“We Believe!“