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Harden vs Curry: la resa dei conti

Probabilmente non siamo ai livelli di Mayweather-Pacquiao, sebbene, anche in questo caso, ci si trovi di fronte a due autentici fenomeni, i migliori nel loro sport in questo momento. E, per restare alle metafore pugilistiche, potremmo tranquillamente paragonarli a due pesi massimi pronti a sfidarsi sul quadrato. Solo che in palio non c’è una cintura di campione del mondo, quanto meno non ancora: in palio c’è un biglietto di prima classe per le finali Nba. Ovvero quanto di più vicino possa esistere al paradiso della palla a spicchi.

Stephen Curry e James Harden si sono sfidati, inseguiti, rincorsi per tutto l’anno. Il tutto solo per arrivare fino a questo punto: il duello finale, il redde rationem della finali della Western Conference che stabilirà, finalmente, chi è il migliore. Concetto che va ben al di la di triple doppie, di medie punti da marziano, della presenza fissa nella courtside countdown di Espn o di un premio di Mvp portato meritatamente a casa dal nuovo profeta della Baia.

Partiamo dai numeri: che saranno anche freddi ma che spesso dicono molto, se non tutto. Non in questo caso, però. Tendenzialmente siamo tutti portati a pensare che il gioco di Curry sia l’esaltazione di un collettivo perfettamente sincronizzato in tutto, mentre in quello di Harden prevalga la componente individualista, accentuata dalla sinistra (non in senso di mancinismo del ‘Barba’) tendenza a forzare tiri dal campo, con percentuali spesso rivedibili. Ebbene, guardando alle statistiche dei primi due turni di playoff, ci accorgiamo che non solo il 13 dei Rockets conclude con il 42.6% (contro il 43.5 di Curry) ma risulta essere più predisposto a coinvolgere i compagni, come dimostrano gli otto assist a sera (con Curry ‘fermo’ a 6.8). Così come i 26.7 punti di media non sfigurano se confrontati ai 28.2 del figlio di Dell. La carenza più evidente sta nel dato riguardanti le conclusioni dietro l’arco: il 36.7 da tre punti (contro il 41.1 del numero 30) non fa onore a uno dei migliori giocatori della Lega. Nemmeno se, come nel caso di specie, si parla di uno che viene sistematicamente raddoppiato ad ogni possesso.

Come leggere queste cifre? E che peso bisogna dargli? Relativo, sia che si parli dell’uno o dell’altro. Curry e Harden sono due giocatori che vanno interpretati ben oltre numeri e percentuali scritte su un foglio di carta. Sono la perfetta espressione della Nba dei secondi anni 2000, nonché incarnazione delle due anime del basket moderno. I puristi, gli amanti dei fondamentali e del gioco tout court, tendono a preferire Curry: primus inter pares di una delle migliori squadre su singola stagione della storia e fiore all’occhiello di un sistema di gioco che privilegia l’armonia del gruppo pur non rinunciando all’acuto del fuoriclasse assoluto. Gli altri, quelli che “d’accordo che la pallacanestro è un gioco di squadra, ma alla fine vince chi ha la superstar più superstar di tutte”, non possono non avere un debole per Harden e la sua capacità di incidere sulle sorti di una singola partita con un paio di accelerazioni delle sue. Si può dire, senza tema di smentita, che l’anima e le sorti di Warriors e Rockets siano racchiuse nei loro polpastrelli.

Ma anche questa lettura rischia di essere fin troppo semplicistica e riduttiva del reale impatto che le due stelle hanno sulle proprie squadre. Diverso, ma ugualmente pesante, a seconda che si parli di Curry o Harden.

Il primo, come detto, è l’esaltazione purissima di un collettivo strepitoso che, però, ha a più riprese dimostrato di poter supplire a qualche raro passaggio a vuoto (gara 4 contro i Grizzlies è emblematica in tal senso) con la coralità di un sistema pressoché perfetto. Che diventa ingiocabile quando il prodotto di Davidson è in una delle sue classiche serate si.

Il secondo, invece, è la punta di diamante di una squadra meno ‘performante’ e armoniosa, ma ugualmente efficace nei momenti che contano. Non si sopravvive a una gara 7 contro Chris Paul se non si hanno prima di tutto grandi qualità mentali. E i Rockets, (e Harden per osmosi) ne hanno da vendere. Quando, però, semplicemente ‘non gira’, la parte verso la quale voltarsi è sempre la stessa. Il ‘Barba’ diventa giocoforza il go to guy al quale affidare le proprie speranze per il futuro: con risultati altalenanti e influenzati dalla luna più o meno storta del figlio di Los Angeles. Ciclonico nelle giornate di grazia, irritante quando sembra soffrire di improvvise amnesie che lo portano a forzare ben oltre ciò che l’umana saggezza consiglierebbe.

Così diversi, eppure così uguali. Due modi differenti di divertire, divertirci e divertirsi, ciascuno a suo modo, ciascuno con il suo stile, rendendo difficile, se non impossibile, parteggiare per l’uno o per l’altro, così come vorrebbe la tradizione dello sport quando ci si trova di fronte a due del genere. Non vogliamo assolutamente scomodare l’ingombrante paragone con Bird e Magic ma è indubbio che non si fa in tempo ad ammirare le prodezze dell’uno senza che l’altro risponda con qualcosa dalla bellezza ancor più abbacinante.

E allora siano benedette queste finali di Conference che daranno finalmente risposta alla madre di tutte le domande: “Chi è il migliore sotto pressione, quando conta davvero?”. Il momento è arrivato: l’ho, l’avete, l’abbiamo aspettato a lungo. Probabilmente l’hanno aspettato anche loro, giocando al proprio meglio per arrivare fino a qui, con chissà quale altro asso nella manica ancora in serbo. Perché per giocatori così trovarsi di fronte a qualcuno in grado di tener loro testa è la madre di tutte le sfide.

Fateci divertire. Non chiediamo altro.

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Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone