The AUSTRALIAN Connection: il basket aborigeno e i boomers in NBA
I meriti, la storia, le ragioni che riguardano il dottor James Naismith e la sua incredibile invenzione li conosciamo per sommi capi tutti. Fu nel lontano 1891, a Springfield, Massachusetts, quando il predetto medico canadese inventò The Game. La sua diffusione fu molto rapida, soprattutto negli Stati Uniti, partendo da piccoli tornei fino a costruire una vera e propria lega professionistica. Per il resto del mondo ci volle del tempo, ma non troppo: in Europa la diffusione iniziò negli anni ‘10 e durante la prima guerra mondiale. Sul modello americano, anche il resto del mondo volle assumere a riguardo una struttura organizzativa ben definita e nel 1932 a Ginevra, nazioni come Argentina, Cecoslovacchia, Grecia, Italia, Lettonia, Portogallo, Romania e Svizzera fondarono la Fédération Internationale de Basketball Amateur, o più semplicemente FIBA. Nel 1935, in Svizzera, vengono organizzati i primi Europei, organizzati anche in vista dei Giochi olimpici di Berlino: vinse la Lettonia. 23 anni dopo, nasce quella che oggi chiamiamo Eurolega. La regione del mondo in cui si ebbe subito grande risonanza fu l’America Latina, dove già negli anni ’30 si disputava il primo Campionato Sudamericano, vinto dalla nazionale uruguayana. Ci volle più tempo per vederla in Africa: solo dopo la seconda guerra mondiale si ebbero le prime strutture e le prime forme di organizzazione; bisogna aspettare il 1961 per un’adeguata sistemazione del Gioco nel continente nero. Chi è rimasto? La parte più orientale che c’è. L’ente asiatico che si occupò di pallacanestro fu fondato verso la fine degli anni ’50 con il nome di FIBA Asia. La sezione dell’Oceania della FIBA è stata fondata nel 1967, su proposta di Al Ramsay, dirigente sportivo australiano, membro del FIBA Hall of Fame dal 2009.
Il nostro punto di partenza sarà proprio quest’ultimo: l’AUSTRALIA. Naturalmente non sarà un’analisi storica, geografica o paesaggistica, anche se vale la pena approfondire quei 3 aspetti, ma sarà un’analisi rivolta al rapporto con la palla a spicchi, al rapporto con l’NBA e all’attuale stato della pallacanestro ai massimi livelli. Se andate in uno degli stati più selvaggi del mondo, non troverete né campetti da basket, classici delle periferie, né grandi strutture in grado di ospitare giganteschi eventi (escluse Sidney e Melbourne). Gli sport più praticati sono, senza ombra di dubbio, il Footy, più comunemente conosciuto come football australiano, il calcio, il rugby e soprattutto il cricket. Insomma, la palla a spicchi proprio non c’è. Nemmeno tra gli sport minori ritroviamo tra le prime posizioni la pallacanestro. Prima di essa ci sono il lacrosse, il nuoto, l’hockey su prato, la pallanuoto e, infine, la pallacanestro. Gli appassionati ci sono ma gli spettatori sono sicuramente una minoranza, un numero inferiore rispetto agli sport di cui prima. Questa caratteristica non deriva da nessun fattore in particolare ma, molto semplicemente, la pallacanestro è uno sport molto giovane per riscuotere il successo che merita. Ne è la miglior espressione la NBL (National Basketball League) che ha da poco compiuto 36 anni. Per farvi un esempio molto pratico, la nostra Serie A ha 95 anni, la ACB spagnola ha 58 anni, la NBA ne ha 69 e la stessa Eurolega ne ha 57. Nella lega ci sono attualmente 9 squadre, a rappresentare le città di Adelaide, Cairns, Melbourne, Auckland, Perth, Sydney, Townsville e Wollongong. Dalla prima edizione del 1979 fino a quella del 1998, il campionato si è disputato nei mesi invernali (da aprile a settembre), il tutto per un semplice motivo: per dar spazio anche a questo meraviglioso sport, si è cercato di evitare la concorrenza con i vari campionati di calcio e rugby. La giovinezza del Gioco, dunque, è una ovvia ragione per la quale la palla ovale viene preferita alla palla a spicchi. Le cose sono destinate a cambiare per una serie illimitata di cause che non possono essere riassunte in poco tempo. Il fascino dei massimi livelli del basketball attraversa gli oceani, viaggia lungo onde di migliaia di chilometri per palesarsi agli australiani, ai nostri più lontani parenti, a chi ha sempre preferito l’HAKA al riscaldamento con musica.
Il primo ad aprire le danze, a rompere il ghiaccio fu Luc Longley, storico pilastro degli anni d’oro dei Chicago Bulls. Fu scelto alla settima dai Minnesota Timberwolves, da sempre la squadra più attenta ai nuovi mercati, aperta a qualsiasi tipo di orizzonte. Vi rimarrà per 3 anni, prima di trasferirsi alla corte del Maestro Zen Phil Jackson, che fa di lui un giocatore chiave dei Bulls. L’incredibile Threepeat dei Bulls porta anche la sua firma, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto difensivo. Tre volte campione NBA e nulla da aggiungere. Nel 1993 furono ben 2 i giocatori scelti: Darnell Mee e Ricky Grace, entrambi nativi statunitensi ma naturalizzati australiani. Il primo, visto anche in Italia per una brevissima parentesi alla Kinder Bologna di Ettore Messina, fu scelto dai Warriors ma immediatamente scambiato con i Nuggets. Poca fortuna, quasi sempre 12esimo uomo, solo 2 anni di NBA prima di volare in Cina. Il secondo, Grace, con ancora meno fortuna di Mee: talento incredibile degli Oklahoma Sooners, chiamato da tutti i compagni di squadra amazing, viene scelto alla 67 dai Jazz ma solo formalmente è entrato in NBA. 0 partite, 0 punti, 0 apparizioni. Nel ’94 c’è ancora una rappresentanza aborigena, ovvero sia quella di Andrew Gaze. Sfortunata la sua prima esperienza con i Washington Bullets, dopo un anno da free agent si accasa agli Spurs, nel ’99, ma sono poche le partite in cui gioca e sono tanti gli infortuni. Un’unica peculiarità: è campione NBA proprio con gli Spurs. Poche partite ma un anello bello da custodire. Il biennio 1996-1997 vede Shane Heal, Mark Bradtke e Chris Anstey vestire rispettivamente le maglie di Timberwolves, 76ers e Mavericks. Nessuno con particolare futuro nella National Basketball Association.
Approdiamo finalmente nel nuovo millenio, tempi più vicini anche alla nostra memoria. Per un lungo periodo l’Australia cestistica viene messa da parte, visti gli ultimi sventurati esperimenti. La produzione di talenti si ferma anche dall’altro lato del filo, ma tutto si interrompe nel 2005. Dopo un’infanzia molto controversa (prima football, poi tennis, poi con i notevoli cambiamenti fisici la pallacanestro), arriva al college di Utah un ragazzone con un tipico fisico da australiano e con le mani molto educate. Nella sua stagione da sophomore tocca cifre davvero importanti: 20.4 punti, 12.2 rimbalzi (secondo nella Division I), 2.3 assist, 1.8 stoppate, tirando con il 62.0% dal campo (ottavo nella Division I). Inoltre, diventa il numero 1 per numero di doppie-doppie in stagione: ne arriveranno ben 26. Quel ragazzone nativo di Victoria, regione meridionale dell’Australia, risponde al nome di Andrew Michael Bogut. Sono numeri che, volente o nolente, fanno alzare qualche palpebra ai piani alti e i primi a rendersi conto delle potenzialità furono nel 2005 i Milwaukee Bucks che, durante la ricerca ossessiva di un centro attorno al quale costruire un progetto ambizioso, lo scelsero alla prima chiamata assoluta, snobbando nomi come Chris Paul e Deron Williams. L’anno successivo, nel 2006, arriva alla corte dei Chicago Bulls Luke Schenscher, centro di 216 centimetri molto simile per struttura fisica a Bogut. Cerca di seguire le orme dei suoi predecessori, Longley e Anstey, ma i risultati sono miseri. Molta D-League e poca, pochissima NBA. Balzo in avanti di 2 anni: 2008, Nathan Jawai da Sidney. Viene scelto alla 41 dagli Indiana Pacers ma i diritti vengono ceduti ai Toronto Raptors nella trade che coinvolse Jermaine O’Neal, T. J. Ford, Rasho Nesterović, Maceo Baston e la 17esima scelta del 2008, guarda caso Roy Hibbert. La sua storia d’amore con 2 anni, il primo con i canadesi e il secondo con i Minnesota Timberwolves. Un 4 mascherato da 5 o viceversa. Per farvi capire, la diatriba che suscitò per la scelta del suo soprannome è unica: si passa da “Aussie Shaq” a “Outback Shaq”, fino ad arrivare al primo concetto di “Baby Shaq”. Almeno l’idea della tipologia del fisico non dovrebbe mancarvi ora. Nel 2009 arrivano altri due giocatori, anzi facciamo 1 e mezzo: Patrick “Patty” Mills e David Andersen. Mentre il centro visto anche in Italia con le maglie di Bologna e Siena è per metà danese e per metà australiano, il playmaker dei San Antonio Spurs vanta di essere il secondo Indigenous Australians (gli abitanti originari del continente oceanico) a giocare in NBA, solo dopo il predetto Jawai. Le fortune di Mills, che non arriveranno subito, le conosciamo tutti, mentre Andersen dal 2009 al 2011 girovaga per più squadre, passando dai Rockets (5.8 di media in 63 gare) ai Raptors (5.1 in 11 gare), fino alla breve parentesi di New Orleans (2.7 punti in 29 partite). L’Europa lo richiama a gran voce e lui coglie al balzo l’occasione di tornare a dominare sotto i tabelloni del Vecchio Continente con la maglia della Mens Sana Siena. Gli ultimi arrivati, in ordine cronologico, sono Matthew Dellavedova (2013), Cameron Bairstow (2014), Dante Exum (2014), Joe Ingles (2014). Dopo questo lungo excursus storico, soffermiamoci su quelli che sono gli aspetti del gioco attuale, analizzando tutti i giocatori australiani che attualmente militano nel campionato più bello del mondo.
Andrew Bogut #12, Center, Golden State Warriors: il valore del giocatore non si discute. Solido, cattivo al punto giusto, ottimo difensore del ferro e dell’area e intimidatore con i giusti attributi. Bogut è diventato una pedina di rara importanza prima nello scacchiere di coach Mark Jackson e poi in quello di coach Kerr, anche se il secondo lo ha avuto a disposizione per poco tempo. La sua carriera nella Baia non ha vissuto momenti solo felici, anzi. I repentini e tartassanti infortuni lo costringono a vedere il campo a sprazzi, quasi ad intermittenza. L’ultimo questa stagione, dopo appena 19 partite, contro Minnesota. Il ritorno, il 7 di gennaio ha dato nuova linfa ai suoi Warriors, prima di rifermarsi per un paio di partite per infiammazioni varie agli arti inferiori. Nonostante tutto, però, coach Kerr è stato in grado di dosarlo nel giusto modo, garantendogli dei buoni minuti, sacrificando un Maurice Speights come non si era mai visto. Il suo gioco, che a stretti termini non si sposa al meglio con la filosofia di ritmo elevato di Kerr e Curry, si sta evolvendo per rendersi ancora più funzionale e utile alla squadra. Era un problema quando era ai box perché tutti si chiedevano come Kerr lo avrebbe reinserito nelle rotazioni, non lasciando scontenti nessuno. Al momento il lavoro dell’ex cecchino di Bulls e Spurs sta pagando, sperando che Bogut riesca a trovare quella continuità che manca spesso nelle sue stagioni.
Patrick Sammy “Patty” Mills #8, Point Guard, San Antonio Spurs: su Patty dobbiamo soffermarci un po’ di più, perchè la sua storia merita particolarmente. Lo potremmo definire un incrocio tra due culture australiane ben diverse tra loro: la prima, ereditata da parte materna, appartiene alla tribù degli Ynunga, colonna degli Aborigeni; la seconda, ereditata da parte paterna, deriva dalle Torres Strait Islands, altra importante tribù del territorio del Queensland. Da queste due diverse derivazioni nasce Patty, non subito promesso sposo alla pallacanestro per i motivi di cui sopra. Fu cercato dai Sydney Swans, una squadra di calcio, ma nemmeno quell’amore fu maturo al punto giusto da sbocciare definitivamente. Scelse la pallacanestro, anche perché era piuttosto di statura minuta e gli altri sport non gli si addicevano. Nel 2006 arriva l’occasione di mettersi in mostra, la prima vetrina: si vola a Memphis in quanto selezionato come under 20 per disputare il Nike Hoop Summit a Memphis contro una selezione americana. Non brillante ma comunque prestazione da 8 punti e 6 assist. Lo notò il coach dell’Australia e lo portò in ritiro in quello stesso anno con la nazionale maggiore dei Boomers, il più giovane a riuscirci. Ma è solo l’America che vuole Mills ed infatti per il college si va in California, al Saint Mary’s College. Sebbene lo avessero cercato molti nomi prestigiosi come Utah (dove giocò Bogut), Nebraska, Wake Forest e Alabama, Mills aveva già deciso di giocare per coach Randy Bennett. Nel 2009 termina la sua scalata e approda in NBA, selezionato da Portland con la 55, non proprio la primissima scelta. Emozionato come non mai, arriva la prima terribile tegola. Durante la Summer League si rompe il piede ed è costretto ad operarsi prima ancora di iniziare la sua avventura. Il ritorno non fu in prima squadra ma in D-League dove esplose in maniera impressionante: alla sua prima apparizione, il 29 dicembre, segnò 38 punti, fornì 12 assistenze e catturò 3 rimbalzi. Appena due partite dopo realizzò il canestro della vittoria. La chiamata dei TrailBlazers non tarda ad arrivare. Esordisce il 4 gennaio 2010: appena 5 minuti, 0 punti e 2 assist. Viene rispedito in D-League ma durante il Lockout torna in Australia e firma un solito contratto da Lockout con i Melbourne Tigers. Lo nota un coach canuto, sulla sessantina dal nome Gregg Popovich che lo vuole a sua disposizione. Il 27 marzo firma con gli Spurs e appena un mese dopo realizza il suo massimo in carriera: 34 punti e 12 rimbalzi, proprio contro il suo connazionale Bogut. La storia è incredibile, la fiducia per questo ragazzo è stata più volte mandata sotto terra eppure non ha mai perso il coraggio di provarci e riprovarci ancora. Il suo impressionate apporto nelle scorse Finals è innegabile: 7.3 punti di media in 15 minuti, trafiggendo la difesa Heat con un clamoroso 40.3% (32/79) dall’arco dei 3 punti. La presenza all’interno del roster di un giocatore che, contrariamente a Parker, può alzare il ritmo a livelli incredibili fa sempre comodo. Popovich ha a disposizione un jolly sotto questo punto di vista.
Matthew Dellavedova #8, Point/Shooting Guard, Cleveland Cavaliers: lo definisce “smart and leader” il suo ex allenatore Mike Brown, anche se dalla stazza forse non si direbbe. Minuto, forse anche più di Mills, col quale condivide il college, non ha praticamente paura di niente e di nessuno (conoscete un australiano che abbia paura?) e affronta a viso aperto qualsiasi avversario. Acuto, intelligente e sa quando tirar fuori dei vecchi scheletri, quelle piccole vendette che danno maggior valore ad soddisfacente vittoria di regular season. Nel pre-game tra Sixers-Cavs, Brett Brown, che ha allenato Dellavedova con i Boomers, la nazionale australiana, lo ha definito scherzosamente un “Neanderthal” . Dopo la vittoria e la clamorosa prestazione finale (3/3 dall’arco e 10 punti negli ultimi 7’ di gioco), Matt ha ammesso di essersi preso una piccola (ma quantomai grande) rivincita su Brown che lo tagliò dal roster della nazionale nel 2010, quando già tutti davano Dellavedova come elemento di spicco di quella formazione. Giusto per farvi capire di che pasta è fatto il ragazzo. Anche quest’anno la fiducia che gli viene data da Blatt è tanta e ha saputo sfruttare nel modo giusto l’assenza di Kyrie. Tanto impegno, tanta difesa, tanta intelligenza cestistica per uno “studente del Gioco” che ha sempre più voglia di imparare. L’arma del tiro da 3 punti è quella più letale ed è anche quella che rende Dellavedova più pericoloso. Conosciamo il modo in cui, soprattutto nei Playoff, LeBron sa innescare i vari cecchini dal perimetro e il suo ruolo nella post-season sarà importantissimo.
Dante Exum #11 & Joe Ingles #2, Utah Jazz: li uniamo nello stesso racconto ma le storie sono completamente diverse, così come l’età anagrafica. Il primo, classe 1995, è un giovanissimo talento tutto da scoprire, dotato di una struttura fisica ancora leggera ma capace di rendere Dante molto agile e davvero sfuggente. Il secondo, invece, classe ’87, ha da dimostrare davvero poco: i 3 anni al Barcellona a livelli celestiali e l’unica stagione al Maccabi Tel Aviv, col il quale ha vinto la scorsa Eurolega, non richiedono ulteriore presentazione. Il caso e la sorte hanno voluto che, sotto un certo punto di vista, Joe diventasse quasi la guida durante la prima stagione per Exum. L’infortunio di Burke di inizio stagione ha catapultato entrambi in una realtà completamente nuova, dove entrambi hanno avuto difficoltà. Conoscendosi meglio, hanno avuto l’opportunità di mostrare il loro vero valore e, chissà, garantire un futuro ancor più roseo ai Jazz. Ingles, che pian piano si sta addentrando nelle dinamiche del playmaking NBA, nell’ultimo mese ha avuto numeri importanti per un rookie e lo stesso sta facendo Exum, dal ruolo ancora da definire. Entrambi sono sotto la supervisione di coach Snyder, un coach da sempre appassionato a tutte le culture cestistiche del mondo. Prendere l’estro di Ingles e trasportarlo quasi nel corpo di Exum è il suo compito più arduo ma non per questo impossibile.
Concludiamo con due protagonisti che per motivi quasi di coerenza geografica non abbiamo inserito. Stiamo parlando di Steven Adams e Aron Baynes, centri rispettivamente di Oklahoma City Thunder e San Antonio Spurs. Dalla determinazione, grinta e carattere molto simili, i due neo zelandesi stanno conquistando sempre più la fiducia dei propri coach. Da un lato Popovich, amante da sempre degli instancabili lavoratori come Baynes, dall’altro Brooks, innamorato della durezza mentale e fisica di un probabilmente mancato giocatore di rugby. Mentre, però, Baynes ha già potuto dare il proprio contributo nelle scorse Finals, aggiungendosi a quella lista di australiani ( o naturalizzati australiani) a vincere un anello NBA, Adams cerca ancora di trovare la quadratura del cerchio, considerando anche l’ingombrante presenza di Serge Ibaka. L’evoluzione del gioco dello Spagnolo potrà allargare gli orizzonti di coach Brooks che potrà decidere di giocare con un centro che riempia l’area in attacco e difensa il ferro nella metà campo opposta, con le grazie che dovranno essere concesse da Durant e Westbrook. Sono proprio loro, con ogni probabilità, i motivi del mancato totale inserimento di Adams: meglio liberare il pitturato per consentire a Russell di penetrare ogniqualvolta vuole ma concedere tanto a rimbalzo, oppure meglio avere protezione e difesa del proprio ferro? Brooks è davanti ad un bivio non da poco, mentre Popovich si gode un neozelandese più duttile.