Difesa, KD e gli sforzi del Re: l'eredità di gara 2 delle Finali
Le chiavi di lettura del secondo episodio della terza serie finale tra Cavs e Warriors sono molteplici: si potrebbe dire che anche l’anno scorso i californiani avevano due gare di vantaggio e un gap che sembrava difficilmente colmabile salvo poi crollare in prossimità del rettilineo finale sotto i colpi e le stoppate di LeBron James e che, quindi, non molto sia cambiato rispetto a dodici mesi fa (lo ha ribadito anche Steve Kerr); così come, però, si potrebbe dire che se una squadra è capace di vincere di 19, aggiornando record in serie, nonostante il dato relativo alle palle perse sia nettamente a favore degli avversari (precisamente 20 a 9) e un LeBron James sempre più nella storia (ottava tripla doppia alle Finals eguagliando Magic Johnson), allora #defendtheland, a questo giro, diventa duretta.
Si tratta di una questione principalmente legata al linguaggio del corpo delle due squadre in questi primi 96 minuti di confronto diretto: se uno come LBJ, atleticamente tra i più forti DI SEMPRE a questo livello, ha il fiato corto in chiusura di terzo quarto (dopo aver, tra l’altro, “concesso” 23 punti in 23 possessi in cui si è ritrovato a marcare l’immarcabile Durant di questo periodo), pur avendo i suoi compagni dato davvero tutto ciò che avevano a livello di fisicità e intensità (ben 28 i palloni “sporcati” contro i 9 dei Warriors, riuscendo contemporaneamente anche a limitare punti e possessi in transizione), allora la notte è ben più scura e profonda di quanto non dica il 2-0 con cui si ritorna in Ohio. Soprattutto contro un avversario capace di tenere difensivamente anche senza un Draymond Green gravato dai falli, che ha ritrovato il miglior Klay Thompson (8/12 dal campo e 4/ da tre, oltre al solito eccellente contribuito nella metà campo difensiva contro un Irving palesemente in difficoltrà) e con un Steph Curry in più nel motore (prima tripla doppia della carriera alle Finals a quota 32+10+11) rispetto all’ultima edizione.
E poi, naturalmente, KD35. L’arma totale, l’autentico dominatore della serie: 27/48 dal campo per 71 punti, oltre a 13 rimbalzi, 5 stoppate e 3 rubate solo in gara 2, facendo tutta la differenza di questo mondo su entrambi i lati del campo. In particolare la svolta di partita (e serie? Lo capiremo nelle due partite alla QLA) è stato il suo impiego da 5 sui generis, contribuendo ad aprire ancor di più il campo per le conclusioni dalla media/lunga distanza (non a caso è arrivato il record per numero di conclusioni dall’arco dei tre punti in una gara di finale: 18/43) e a chiudere l’area sulle penetrazioni costruite sul p&r centrale e/o laterale.
Game, set, match and ring, quindi? Assolutamente no: il 2016 ha mostrato come, a certi livelli, basti davvero poco per cambiare l’inerzia di un confronto tra due squadre così forti e così complete (per quanto i Cavs abbiano mostrato fino ad ora una relativa profondità nelle rotazioni: il bilancio nei minuti in cui LBJ ha riposato è disastroso). Eppure il fatto che i campioni in carica, pur giocando al meglio delle proprie possibilità, abbiano avuto poco da opporre (120 punti concessi su 100 possessi) contro gli avversari migliori incontrati fin qui, è molto più significativo di quanto raccontano dati e statistiche. Il tutto, ovviamente, in attesa di quel che succederà a Cleveland: nel regno del #23 le prospettive possono cambiare in un amen.