L'EDITORIALE - I Warriors e la forza della consapevolezza
Dal guanto di sfida di Lillard («Vinciamo noi in sei gare») al social media manager che su Twitter prova a rendere meno amaro lo sweep attraverso l’ironia, il passo è stato molto più breve di quel che si potesse immaginare. Anche perché gara 1 lasciava intuire una serie non priva di ostacoli per i Warriors chiamati a (stra)vincere dopo la delusione del 2016. Invece, a ben vedere, proprio il fatto che Portland non sia riuscita a portare a casa una gara in cui Lillard e McCollum hanno segnato 75 punti in due (51.5% complessivo dal campo), avrebbe dovuto far presagire quel che poi è stato un 4-0 ineccepibile. E il segnale lanciato alla lega, ai Cavs (protagonisti, a loro volta, di un percorso netto contro i Pacers) e al mondo: se questo è stato possibile con un Durant a mezzo servizio (per quanto il 32+11 del primo atto alla Oracle Arena abbia avuto un peso specifico notevole) e con Steve Kerr che rischia di restare fuori per tutta la durata di playoff, significa la consapevolezza dei propri mezzi è tale da sopperire ad ogni mancanza. Dentro e, perché no, anche fuori dal campo.
Sono stati pochi, pochissimi, i momenti in cui i Blazers (tra l’altro condizionati dai problemi fisici di Jusuf Nurkic) hanno dato l’impressione di poter dire effettivamente la loro. E, quando si sono verificati (vedasi i primi due quarti di gara 3), gli avversari hanno impiegato pochissimo a riprendere il controllo della partita, partendo dalla difesa. E da Draymond Green, ovviamente. Del quale non si devono guardare i numeri, ma l’impatto su entrambi i lati del campo: la sensazione è che questa, ormai, sia diventata la “sua” squadra, ben oltre il ruolo che ricoperto (non saranno sfuggite le situazioni in cui ha agito da playmaker nemmeno tanto occulto, come dimostrano i 7.5 assist di media nella serie) nei suoi 35 minuti di impiego. Essenziale, efficace, decisivo: cose giuste, al posto giusto e nel momento giusto. Senza disdegnare qualche effetto speciale qua e là.
Questo insieme di fattori non poteva che culminare nel 45-22 da record del primo quarto di gara 4 (che ha messo la pietra tombale sulle velleità – semmai ce ne fossero state – dei presenti al Moda Center) e in quella che Damian Lillard ha poi identificato come la sua ossessione. Senza, peraltro, che debba dolersene più di tanto: questi Warriors, fino a prova contraria, non sono giocabili. Dai Blazers e da parecchie altre squadre. Non è solo una mera questione di percentuali, statistiche, di tiri da tre che entrano o meno, di spaziature e set offensivi eseguiti correttamente: dipende tutto da quella che Steph Curry (37 punti e 7/11 da tre nell’ultimo atto della serie) ha identificato come una rinnovata consapevolezza della propria forza e dei propri mezzi. E se una squadra forte diventa anche consapevole, il passo verso il titolo può essere ancor più breve di quello che è servito per passare dalla baldanza di Lillard al 4-0 del primo turno.