Dalle Olimpiadi del '36 al trionfo di LeBron James: la Napoli di Federico Buffa
Metti un pomeriggio afoso come pochi, il lungomare di Napoli sullo sfondo e il miglior story teller italiano che scambia quattro chiacchiere tra sport, teatro e cultura come se ci si trovasse tra vecchi amici.
E’ da un anno che Federico Buffa, smessi i panni del commentatore sportivo in senso stretto, gira l’Italia con il suo spettacolo teatrale ‘Le Olimpiadi del 1936‘: un viaggio in un passato mai così attuale, con lo sport che, ancora una volta, diventa il paradigma del contesto socio-culturale che ci circonda.
La redazione di NBA24 non si è fatta sfuggire l’occasione di un incontro in cui parlare di tutto e il suo contrario: scoprendo che la commedia napoletana, Leni Riefenstahl, LeBron James e i New York Knicks hanno in comune molto più di quanto si possa immaginare.
Dopo un anno di tournée in giro per l’Italia come pensi di poter valutare questa tua esperienza di attore?
“Beh, prima di tutto c’è da dire che non c’è alcuna speranza che io diventi attore, specialmente alla mia età (ride, ndr). Sono il più sorpreso di tutti. Ogni sera, insieme ai miei compagni di viaggio, ci guardiamo e ci domandiamo come sia possibile essere a un teatro come il San Carlo, così come ci siamo domandati come sia stato possibile essere allo Stabile di Torino. Però l’emozione di poter condividere e trasmettere qualcosa è sempre forte: nella prima serata al San Carlo ci saranno state mille persone, lo spettacolo finiva alle due e mi sono reso conto, quando si sono accese le luci, che la maggior parte di loro era ancora lì. E questo ti dà la sensazione di star facendo qualcosa di particolare, nel senso che io non dovrei essere lì, non ci sarebbe alcuna buona ragione per cui io dovrei essere lì, però una volta che ci sei provi a farlo ai limiti delle tue possibilità”.
È uno spettacolo che testimonia l’importanza e l’amore che ha lo sport per Napoli. Nonostante una non eccelsa pubblicità data all’evento da parte dei media, i napoletani hanno risposto presente…
“Questo è solo una parte. L’altra è costituita dalla cultura teatrale della città che è obiettivamente diversa. Mi piace pensare a Napoli come a una città-stato, in cui il napoletano non è un dialetto ma una lingua, né più né meno di quello che possa essere il catalano a qualche chilometro da qui. E’ l’unica città al mondo che può avere un genere teatrale e un genere musicale immediatamente riconoscibili in tutto il mondo: Buenos Aires, che è quella che le assomiglia di più, ha il tango, Lisbona il fado, ma non hanno un genere teatrale così. E’ un luogo diverso, alle volte intimidente, sempre molto presente ed elettrico e che ti costringe a vivere al suo ritmo: c’è poco da fare, quando vieni qua è diverso, non necessariamente al San Carlo. Mi ricordo quando a 14 anni mio padre mi portò a Napoli, al teatro Sannazaro, a vedere ‘Il morto sta bene in salute’, con Pietro De Vico. Io non ho mai più visto una commedia con un protagonista che avesse quella capacità di tenere il palcoscenico con quei tempi teatrali. Mi piaceva da impazzire. Quando uscimmo, dissi a mio padre: ‘Ma papà, qua?’. Lui non disse nient’altro che: ‘Federico, Napoli’. Non mi diede una spiegazione, usò solo due parole. Sono passati più di quarant’anni da quella domenica sera eppure lo sento ancora come un momento molto vicino. C’è una malìa in questa città che è impressionante”.
Senza contare che proprio tu hai fatto capire come raccontare le storie dello sport equivalga a raccontare la storia che attraversa il Paese. Anche se, probabilmente, la storia stessa resta cristallizzata in luoghi come questo…
“Lo è, certamente. Il problema è che tante volte la si vede in maniera stereotipata. poi però, al di là di alcuni aspetti che effettivamente corrispondono, è come riscoprire tutto per la prima volta. Ho tanti amici a Napoli e in questi tre giorni, anche se siamo stati in giro per la Campania, ho conosciuto tantissima persone. Si vede che la gente ti avvicina in un altro modo, senza che nessuno ti manchi mai di rispetto. C’è un modo molto spontaneo di presentarsi. Io credo che Catania, Torino e Napoli abbiano la miglior scena italiana dal punto di vista artistico e giovanile del Paese. E te ne accorgi: io sono sicuro che la sera ci sono decine di piccoli spettacoli o concerti di cui magari nemmeno voi, ce ci vivete, ne siete a conoscenza”.
Parlando dello spettacolo, come mai proprio le Olimpiadi del 1936? C’è stato un personaggio o una storia in particolare che ti ha ispirato?
“E’ stata più che altro un’opportunità. I due registi dello spettacolo, Emilio Russo e Caterina Spadaro mi contattarono perché credo avessero visto qualcosa che avevo fatto in televisione e mi chiesero se avessi voglia di fare ‘il grande salto’. Accettai anche se non mi sentivo perfettamente in grado perché è sempre stato il sogno della mia vita. Quando, poi, mi chiesero quale sarebbe stato l’evento migliore da poter rendere teatralmente, non ebbi dubbi e citai le Olimpiadi di Berlino, in quanto inizio dello sport come lo conosciamo oggi. Vi faccio un esempio: avrete sicuramente visto delle immagini dei gol della Nazionale italiana ai Mondiali del ’34 e del ’38. Sembrano gol di calcetto: quattro passaggi in area e poi la rete, oppure Meazza che tira il rigore tenendosi i pantaloncini che gli cadevano. Le immagini sono sempre quelle e la qualità è modesta. Nel 1936, invece, Leni Riefenstahl gira un film (‘Olympia’, ndr) che sarebbe un grande documentario sportivo anche oggi. Si spettacolarizza lo sport come non era mai stato pensato prima, anche per esigenze propagandistiche, e lo stesso perde la sua ‘verginità’: da qual momento sport, politica e anche doping, entrano nel contesto che conosciamo. Sono passati ottant’anni e quelle Olimpiadi sono di una sinistra attualità e, dovendo scegliere un singolo episodio sportivo del ‘900, l’alternativa era tra quella e Messico ’68”.
Quando racconti una storia cos’è che fai, come ti documenti?
“In questo caso avrò letto otto-nove testi, però non ho ancora smesso visto che si tratta di una storia in evoluzione. Di fatto, ogni sera aggiungo qualcosa, un particolare nuovo, che non ho mai detto prima, ma solo nella parte non teatrale. Ultimamente, per esempio, ho aggiunto il dettaglio di come la Riefenstahl abbia fatto rifare la gara di salto in lungo, tenendo buono il risultato sportivo precedente, perché nel film quella competizione doveva avere un tipo di luce particolare. Quindi tutti gli astisti si sono prestati a rifare i salti che le servivano per la fase di montaggio”.
Che, senza voler spoilerare, è la scena finale del film Race, che tu hai doppiato…
“E’ stato un altro grande onore anche perché Alessandro Rossi, uno dei più grandi doppiatori italiani mi ha proprio portato di peso a doppiare quel personaggio lì, facendomi parlare con quell’accento centro-italiano che non ho e portandomi, in poco tempo, a fare qualcosa dalla quale ho imparato tantissimo”.
Oggi siamo all’alba di nuove Olimpiadi. Perché secondo te per un atleta è così importante parteciparvi, indipendentemente dal numero di medaglie vinte in altre competizioni?
“Vi faccio un esempio: qual è l’ultimo atleta napoletano ad aver vinto una medaglia alle Olimpiadi? Un pugile, Clemente Russo. Ecco, quante volte si parla di Clemente Russo in un anno sportivo non olimpico? Poche. E stiamo parlando di un pugile. Pensate a qualcuno che vince una medaglia nel taekwondo: immaginate che bello, per un atleta, far parlare di lui, del proprio sport, della propria federazione, del luogo da cui viene. Come nel 1936, le Olimpiadi sono l’unica, reale, grande kermesse mondiale. Il Mondiale di calcio è impressionante, ma riguarda un numero inferiore di nazioni: alle Olimpiadi, invece, vanno tutti con storie da tutto il mondo perse e poi recuperate. Come quella di Jessie Owens che negli Stati Uniti ricevette forti pressioni per boicottare i Giochi per motivi politici: invece ci andò e si ritagliò un discreto posto nella storia”.
Napoli è una città che vive di calcio, anche perché talvolta i media si concentrano solo su quello. Eppure ci sono tanti sport minori che non riescono a emergere, in un contrasto che si avverte qui più che altrove. Perché l’Italia e Napoli non riescono ad uniformarsi ai canoni europei e americani che danno allo sport un’importanza fondamentale nella crescita dei giovani?
“C’è da premettere che il discorso è molto complesso. In questa città ho molti amici,
compreso Roberto Di Lorenzo, il principale insegnante di basket d’Italia, storico uomo Partenope e adesso impegnato in altra società. Noi siamo vittima di un conflitto storico. I nostri padri costituenti, infatti, non menzionarono la parola ‘sport’ perché dovevano opporsi a quanto accaduto nei vent’anni precedenti dove, invece, allo sport era stato dato un valore politico e simbolico molto forte. Quindi, la nostra Costituzione rinunciò a considerare il valore sociale dello sport, con il risultato che l’Italia abdicasse alla gestione dell’attività sportiva. Mancando nelle scuole, l’educazione sportiva dei ragazzi italiani avviene al di fuori, con varie associazioni che, a macchia di leopardo, hanno per così dire ‘preso in affitto’ l’educazione sportiva dei giovani italiani. Perciò è del tutto normale che, a quasi settant’anni dalla carta costituzionale, si sia a questo punto: si è rinunciato a dare un valore educativo allo sport e, contestualmente, lo sport stesso non ha valore culturale. Per cui cinema, teatro e letteratura italiana di sport non si occupano o, se lo hanno fatto, lo hanno fatto saltuariamente o parodisticamente come avviene nel cinema. Prendiamo ad esempio un personaggio unico e che fu protagonista a Berlino ’36, dove l’Italia arrivò quarta nel medagliere: Trebisonda, detta ‘Ondina’, Valla, che vinse la medaglia d’oro degli 80 ostacoli diventando la prima medagliata olimpica nella storia dello sport femminile italiano. La mia domanda è: perché in Italia non c’è un singolo autore che ha ritenuto che Ondina Valla non valga un film? Se tu dai Ondina Valla agli inglesi e agli americani un film te l’hanno fatto, ma da anni. Così come le Olimpiadi del 1960 a Roma, che ci rimettono sulla mappa del mondo, non valgono un film? Quando ho chiesto il perché la risposta è stata: costerebbe troppo. Ho chiesto anche quanto fosse costato Race e mi sono detto che, alla fine, non è un problema di soldi ma soltanto di mancata volontà di realizzare un prodotto del genere. Per questo poi non lamentiamoci se lo sport italiano è così discontinuo, fatta eccezione per alcune grandi realtà, riconducibili al fatto che abbiamo degli ottimi allenatori. Tra l’altro non abbiamo neanche un ministero per lo sport”.
E’ passato poco tempo dalla vittoria di Cleveland alle Finals Nba. E’ la vittoria giusta?
“Mi risulta sempre difficile pensare al concetto di giusto o ingiusto perché spesso mi trovo a parteggiare per gli sconfitti. Del resto è stato anche l’anno delle 73 vittorie e questo gli è anche costato qualcosa, secondo me: è un record che resterà per sempre ma che poi, alla fine, non dice nulla senza anello. Io penso che sia giusto che LeBron James abbia da qui in avanti una considerazione diversa da quella che ha avuto fino ad ora. Quando facevo il telecronista Nba in varie occasioni mi permisi di dire: ‘guardate che torna indietro’. Anche perché The Decision fu criticata in un modo abnorme ma, a mio modo di vedere era una decision molto semplice dal suo punto di vista: ‘Signori, gli altri due non vengono a Cleveland a giocare con me e io avrei bisogno di qualche titolo. Facciamo una cosa, vado io, vinco e poi torno qua’. In più, ha avuto la fortuna che quando lui non c’era la squadra andasse talmente male,a dimostrazione che era ed è, il miglior giocatore del mondo, da potersi assicurare ben due prime scelte, di cui una è il giocatore che è arrivato a vincere insieme a lui. Uno come Irving non lo porti in free agency ma lo devi scegliere e a Cleveland hanno potuto scegliere bene e quando lui è tornato con il carisma che ha, con la capacità che ha di migliorare i suoi compagni di squadra, ha potuto fare una serie finale in doppia cifra di rimbalzi e assist. Alla fine, io credo che Golden State sia molto più forte, credo anche che se non si fosse fatto male Kevin Love non avrebbero mai vinto i cavs, però che lui abbia vinto è bello per lo sport, per il basket in particolare e perché da questo momento lo si guarderà sotto un’angolazione diversa. Restano i suoi limiti, tra cui l’incapacità di giocare in un sistema in cui lui non fermi la palla e che è un dettaglio che gli è costato caro in passato, ma, tanto premesso, penso che sia felice di dov’è di cosa fa e di cosa gli è successo”.
A noi piace pensare che LeBron con questo titolo abbia saldato il conto con il suo passato e con la promessa di portare un titolo nella sua città. D’ora in poi vedremo, finalmente, un LeBron libero di essere quello che già è, ovvero uno dei più forti di tutti i tempi, senza il peso di dover dimostrare ancora qualcosa a qualcuno?
“Certamente sarà più rilassato e più in pace con se stesso. Vi faccio una domanda: qual è la squadra Nba che non vince un titolo da più tempo? I New York Knicks. Ecco, ora siccome la città ha un certo qual fascino, se lui vuole veramente portare l’asticella ai vertici mondiali deve risvegliare anche quelli là. Non credo si possa fare ma credo che qualcuno dei grandissimi, di quelli che realmente spostano nella Nba, debba iniziare a pensare: ‘E se fossi io quelli che li riporta su'”?
Però, intanto, hanno preso Rose…
“Ma non basta. Il Derrick di quattro-cinque anni fa tutta la vita. Adesso, purtroppo, dopo due infortuni così è dura. Basta vedere con chi l’hanno scambiato. Un tempo per prendere Rose dovevi dar via mezzo Empire State Building. Non credo che sia lui l’uomo del destino ma prima o poi qualcuno si caricherà New York sulle spalle”.
Qui il video con l’intera intervista: