Il 23 e il 24
Le righe che vi accingete, bontà vostra, a leggere sono tra le più tormentate che lo scrivente si sia trovato a buttare giù. Non tanto per il “se” (perché scrivere di uno che sorpassa in qualcosa Michael Jeffrey Jordan è come la cometa di Halley, passa una volta ogni 75 anni, quindi c’è ben poco da fare gli schizzinosi, o “choosy” come si usa dire oggi), quanto per il “quando”. Nel parlare di Kobe Bryant diventato il terzo marcatore di sempre in Nba, volevo evitare di lasciarmi trascinare dall’enfasi del momento, assumendomi scientemente il rischio di non aggiungere niente ai già abbondanti fiumi d’inchiostro versati in queste ore. Avevo, quindi, deciso di lasciar marinare la cosa il giusto, per evitare di scadere nel banale e nello scontato.
Poi, però, il “Black Mamba” mi anticipa manco fossi uno “Swaggy P” qualunque e affida i suoi pensieri ad una lettera, ripresa da un noto portale oltreoceano, che vi dice tanto, se non tutto, del giocatore e dell’uomo in questione. Quindi, con i miei nobili propositi di scribacchino che non vuole seguire la massa andati a farsi benedire, ho operato un nuovo cambio di programma. Sarà proprio il 24, attraverso alcuni dei passaggi più significativi della summenzionata lettera, a spiegarci cosa si prova nel momento del sorpasso al 23. Lui, impareggiabile Virgilio di questo giochino che ci fa impazzire, guida di noi poveri poeti della palla spicchi che abbiamo smarrito la “dritta via”. Non essendo possibile trovare le parole adatte per celebrare il tutto. A meno che, ovviamente, non si sia quello che tutto ciò lo ha vissuto sulla propria pelle.
– Zero. Questo è il numero di punti che segnai tutta l’estate giocando a Philadelphia alla Sonny Hill Future League quando avevo 12 anni. la leggenda narra che uno dei motivi per cui Bryant trovi nella città dell’amore fraterno uno dei pochi luoghi ostili nel quale esibirsi, sta nel rifiuto, in giovane età, di andare a giocare in estate per Sonny Hill, coscienza cestistica di Philadelphia. Che, fatte le debite proporzioni, è come un tibetano che non riconosce il Dalai Lama. Però, se la logica Aristotelica non è un’opinione, l’affermazione appena riportata ridimensiona un minimo la portata delle cose. Non è comunque l’aspetto più interessante della questione. Il punto sta nel numero: zero, come i punti, come niente, come delusione, come fallimento. E’ dallo zero che parte tutto. Da lì si può solo salire, solo migliorare. A patto di lavorare duro per dimostrare di essere il migliore. Ed è quello che il dodicenne Bryant fa. Centimetro dopo centimetro, passo dopo passo, tiro dopo tiro, delusione dopo delusione. From zero to hero.
– Ecco dove è stato forgiato il mio rispetto e la mia ammirazione per MJ. Ho imparato che anche lui era stato tagliato dalla sua squadra del liceo nell’anno da matricola; ho imparato che anche lui sapeva cosa si provasse ad essere imbarazzato, a sentirsi come un fallimento. Ma ha usato quelle sensazioni per caricarsi, diventare più forte, non si è arreso. Così ho deciso di accettare la mia sfida allo stesso modo in cui ha fatto lui.Ho voluto usare il mio fallimento come benzina per alimentare il mio fuoco competitivo. Stavolta torna buona una delle tante frasi fatte delle nonne: “L’esempio vale più di mille consigli”. Più che con sulla qualità e la ripetitività delle singole giocate, Jordan ha inciso sulla testa di Bryant. Nel 1996, anno dell’esordio tra i grandi senza passare per il College, nessuno poteva anche solo lontanamente immaginare il livello di durezza mentale che avrebbe raggiunto quel ragazzino gracile e, solo in apparenza, timido. Sotto quest’aspetto nessuno può reggere il confronto con lui. Solo MJ. Che, non a caso, è stato l’ispiratore di tutto ciò che è stato, è e sarà il 24 fu 8. Al netto di un inizio di carriera che non lasciava intravedere niente di che. Ma era solo l’inizio appunto. Solo i più grandi prendono forza dalle cadute. Che, col passare del tempo, tendono a diventare sempre più rare.
– È diventata un’ossessione. Ho imparato tutto sul gioco: la storia, i giocatori, i fondamentali. L’ossessività. Una costante nella vita di quest’uomo. Ossessività nella ricerca spasmodica della vittoria (talvolta obbedendo all’undicesimo comandamento delle superstar: “Palla a me, faccio tutto io e voi altri quattro levatevi di mezzo”), ossessività nella ripetizione di ogni singolo gesto in allenamento, ossessività nel cercare il limite e oltrepassarlo per dimostrare a tutti che si sbagliano che non si è troppo giovani o troppo vecchi o troppo egoisti, per giocare in questa lega. L’ossessione, un demone cui sacrificare tutto e tutti. E quando, per contrasto, ci si trova di fronte a una personalità altrettanto debordante ma con una, anche solo accennata, tendenza all’indolenza, lo scontro, violento, è inevitabile. Il grande motivo di contrasto con Shaquille O’Neal (all’epoca comunque il giocatore più dominante della Nba per distacco) fu proprio questo: il non saper accettare che qualcuno di così forte non lavorasse duro come lui per migliorare e migliorarsi. Non mi importa se sei in grado di fare 30+20 anche in sovrappeso di 30 chili. O stai al mio ritmo, alla mia ossessività, o te ne vai. Finì che Shaq se ne andò per davvero, lasciandolo a duellare nel Wild Wild West con calibri rivedibili quali Kwame Brown e Smush Parker. Senza che l’altro, tuttavia, abbia mai mostrato l’intenzione di recedere dai suoi ossessivi propositi.
– Non ero solo determinato a non passare mai più un’estate a zero punti, sono stato spinto ad infliggere lo stesso senso di fallimento ai miei concorrenti, così come loro lo avevano inflitto a me. Nel 2006, nel corso di una tremenda serie (giocata dal nostro ai 35 di media) persa contro i Phoenix Suns, Bryant andò ad un passo da quella che sarebbe stata una delle sue più grandi imprese. Perché eliminare quei Suns (con un D’Antoni ancora raziocinante in panchina e Nash plenipotenziario dell’arte del playmaking) attorniato da un “supporting cast” annoverante i già menzionati Brown e Parker, oltre ad altri autentici “cult” come Vujacic e Luke Walton, avrebbe voluto dire dimostrare che poteva farcela anche da solo. In barba alle vedove di Shaq. La storia seguì, come sappiamo, ben altro corso, a LA proseguirono i riti pagani inneggianti al “Diesel”, Kobe seguitò a prendersi dell’egoista che pensa solo alle sue cifre, e il dogma del “nessuno può farcela da solo” continuò a rimanere scolpito nella pietra. Valendo, tra l’altro, anche per il GOAT da Wilmington che, per vincere, ebbe visogno di 8 anni e di Scottie Pippen. Da quella serie, comunque, ogni volta che Bryant affronta i Suns a ogni canestro ridice indietro tutto ciò che gli fu detto nel corso di quelle 7, interminabili, battaglie. Anche, se non soprattutto, verso quelli tra gli avversari che non c’erano. E’ un metterti alla prova, un modo per vedere se riesci a stare sullo stesso parquet con lui. Se resisti, bene. Altrimenti ti mangia vivo. Se c’è qualcuno che, dopo 48 minuti all’ultimo tiro, si troverà a fallire quello sarai tu. Non lui. E tenderà a fartelo notare, da bravo epigono del 23 in maglia Bulls.
– Ventiquattro anni dopo ho superato il mio mentore. Che sarebbe accaduto lo si capì in quel febbraio del 2003 ad Atlanta, l’ultimo All Star Game della carriera di Jordan. Il quale, per non farsi mancare niente, nel quarto quarto aveva segnato in faccia a Marion (che stava difendendo per davvero, ben oltre il concetto di perfezione) il canestro della probabile vittoria dell’Est. Mancavano pochi secondi alla fine e tutti i protagonisti sul terreno di gioco pensarono fosse giusto finirla qui, con la leggenda che si congeda dalla partita delle stelle da eroe assoluto. Tutti, meno uno. Kobe. Che, in barba a quel rispetto che si dovrebbe nutrire per l’idolo di sempre che ha ispirato ogni suo gesto, forzò fino all’ultimo secondo, prendendosi e realizzando i liberi che portarono al supplementare. E alla successiva vittoria della Western Conference. “No Mercy”, vi direbbe lui. Il demone dell’ossessività va appagato, sempre. Anche quando ci si trova di fronte chi ti ha insegnato come evocare e domare questo demone.
– Sono consapevole dello scorrere del Padre Tempo. Mi ha mandato in camera mia a lavarmi i denti prima di mettermi a nanna, ma non sarei io se non me ne andassi in bagno lentamente. Non sarei io se non mi comportassi come se qualcuno avesse messo il dentifricio nel posto sbagliato. Non sarei io se non mi lavassi tutti i denti due volte, la mia lingua tre volte, fino a quando il filo interdentale non facesse sanguinare le mie gengive e risciacquassi con il colluttorio fino a intorpidirmi l’interno della bocca.
Altrimenti non sarei il ragazzo che si è ripreso dopo lo zero, e non avrei onorato l’uomo che mi ha spinto a sfidare tutto. Dubito serva aggiungere altro. Siamo di fronte a un atleta che, nonostante la piena consapevolezza dello scorrere del tempo, unico avversario che non si può depistare sul crossover, continua nella spasmodica ricerca della perfezione assoluta. Anche a 37 anni e con due infortuni seri alle spalle che gli hanno fatto perdere una stagione e mezza. Non fosse così, non sarebbe Kobe Bryant. L’uomo che è arrivato dove voleva arrivare. Sfidando (e, per una volta, superando) il suo mito. Che, poi, è il mito di tutti. Quindi è come se, su quel terzo grazdino di quel podio virtuale, ci fossimo anche noi.
Non è un caso che questo traguardo sia arrivato in questa stagione, una delle più difficili da quando Bryant è ai Lakers. Potrebbe sembrare un grande paradosso, ma in realtà non lo è. Non poteva esserci annata più adatta per celebrare uno dei più grandi giocatori di sempre. Perché se la grandezza di ciascuno emerge nelle difficoltà, allora il 2014/2015 bryantiano è il perfetto paradigma di un’intera carriera. Vissuta, spesso, giocando solo contro tutti, a volte sbagliando, a volte perché non era possibile fare altrimenti. Che poi ci sia chi continua a discuterlo nonostante tutto ci sta. E’ nell’ordine delle cose, Kobe è il discutibile per eccellenza. Soprattutto quando ci sono argomentazioni (un rinnovo a cifre spropositate che implica la pressoché totale impossibilità di raggiunger quel sesto anello tanto agognato) di difficile confutazione.
Eppure eccoci qua. A rendere grazie al grande dio del basket per averci concesso il privilegio di assistere a questo momento storico. Che non aggiunge e toglie niente al percorso e al valore assoluto del 23 e del 24, ma che è comunque significativo. Perché segna la prosecuzione di un percorso, vissuto su binari paralleli ed uguali. Il 23 e il 24. Basta questo, la naturale successione numerica. Almeno stavolta i numeri hanno davvero detto tutto.