STATS CORNER - La stagione da MVP dell'MVP
Tempo fa qualcuno disse di qualcun’altro (che un paio di pagine di storia di questo giochino le aveva scritte): “I numeri lo offendono”. Ed è vero, verissimo. Tanto per Michael Jordan quanto per Stephen Curry. Però, bisogna mettersi anche nei panni di chi deve raccontare ciò che ha visto, vede e vedrà nel corso di una stagione che passerà alla storia. Comunque la vediate, da qualunque parte stiate. E, quindi, abbiate pazienza se l’unico modo in cui è possibile tradurre compiutamente il come il figlio di Dell abbia (ri)scritto la storia è affidarsi proprio a quei freddi numeri che non sembrano poter rendere giustizia alla grandezza. O forse si.
Come sapete, Curry è stato eletto MVP per il secondo anno consecutivo. Undicesimo giocatore a riuscire nel back to back, terzo tra i playmaker (con Magic Johnson e Steve Nash), primo all’unanimità. Il che significa che 131 giornalisti su 131 hanno scelto lui. Non ci sono stati i Carmelo Anthony o gli Allen Iverson della situazione che, in passato, sono costati a LeBron James (2012/2013) e Shaquille O’Neal (1999/2000) l’onore del plebiscito: Steph è stato in grado di mettere tutti, ma proprio tutti, d’accordo.
Una scelta facile. Quasi scontata. Che prende le mosse dalle pieghe di una regular season che racconta di 30.1 punti (miglior marcatore), 5.4 rimbalzi, 6.4 assist, 2.1 recuperi in 34.2 minuti di impiego di media nelle 79 partite disputate. Con il 50.4% dal campo e il 45.4% da tre. Dati mostruosi se si pensa al numero di tiri presi (20.2 a gara) e, soprattutto, alla qualità degli stessi.
Il problema è lo stesso: quando Curry tira, o ci si stupisce o ci si arrende all’evidenza dei fatti. Che raccontano di parole non ancora inventate per descrivere la storia in movimento dinanzi ai propri occhi. Ma, come avete già potuto notare, laddove non può la lingua arriva la matematica. Latrice di quanto segue:
- – 30.1 punti, 6.7 assist, 5.4 rimbalzi, 90,8% ai liberi, 45,4% da tre, 50,4% dal campo. Roba che non si vedeva dai tempi di Jordan;
- – dopo Steve Kerr (1995/1996) e Steve Nash (2007/2008) è il terzo giocatore della storia a chiudere la stagione regolare con il 90% ai liberi, il 50% dal campo e il 45% da tre;
- – 402 (QUATTROCENTODUE) triple in stagione. Il precedente primato (ovviamente suo, del 2014/2015) era fissato a 286; 116 triple in più ad un anno di distanza. C’è gente che, durante tutta una carriera, non è arrivata a 300;
- – poco più di 5 triple di media a partita ed almeno una tripla mandata a bersaglio in ognuna delle 79 partite che ha giocato;
- – Quattro partite da almeno 10 triple realizzate. Il resto della Lega tre;
- – 6.3 punti di media in più rispetto alla stagione scorsa. Nessun’altro MVP in carica aveva fatto meglio nell’anno successivo alla consegna del premio;
- – 40 gare da almeno 30 punti in stagione;
- – Capocannoniere e primo anche nella classifica di palle recuperate: 2.1, davanti a Ricky Rubio;
Impressionante. Quasi quanto i miglioramenti costanti. Ma non rispetto agli esordi. Lì son buoni tutti. Rispetto ad un 2014/2015 che lo aveva già visto stella tra le stelle e che, adesso, appare quasi come un’annata normale. Quando ‘normale’ è l’unico aggettivo non riferibile al nostro eroe, soprattutto guardando la storyline delle sue statistiche
Mai il concetto di Valuable, di giocatore in grado di incidere sulle sorti sue e della squadra, era stato onorato in questo modo. Perché i Warriors senza di lui sono una gran squadra, ma con lui diventano praticamente ingiocabili. Ad ogni livello. Per qualunque avversario.
E adesso? L’impressione che sia ha, per quanto impossibile da credere, è che si sia appena iniziato a grattare la superficie, che ‘the best is yet to come’. Con quell’ ‘I can do all things’ che, più che una scritta motivazionale sulle scarpe, appare come una promessa. O una minaccia, a seconda dei punti di vista. Di un nuovo livello di grandezza e perfezione. Qualcosa di mai visto prima e che non si vedrà mai dopo.
Perché Stephen Curry potrà non essere il più forte di sempre. Ma è unico. E di fronte all’unicità non ci sono parole e (presto) numeri che tengano. Anche se, a volte, sono tutto ciò che abbiamo per raccontare una stagione da MVP dell’MVP.