Il ritorno di Amar'e Stoudemire
Una vita passata in Arizona a disegnare meraviglie in quello che ancora oggi, insieme al maestro Steve Nash, rimane uno degli spettacoli più abbacinanti cui si sia mai potuto assistere sulla West Coast, un’esplosione tanto intensa quanto effimera in quel di New York prima dell’arrivo di Carmelo Anthony, e un nostalgico quarto di stagione trascorso in Texas, sponda Dallas, nel tentativo di ricordare a tutti, che di quello Stat, qualcosa, in fondo, è rimasto.
Queste erano le premesse con cui Amar’e Stoudemire a luglio firmava con Pat Riley con il solo obiettivo di vincere, soldi ne aveva già guadagnati abbastanza. Paga minima, minutaggio inizialmente ridotto, carisma da veterano, e totale scongelamento ad aprile quando la palla sarebbe pesata. Questo era il piano di società e staff, un progetto tanto semplice quanto lineare. Ecco, le cose non non sono andate esattamente così.
A inizio stagione Erik Spoelstra aveva dichiarato che il lungo sarebbe stato utilizzato solo ed esclusivamente per i Big Match. Detto fatto al secondo incontro di Regular Season si vola alla Quicken Loans Arena di Cleveland dove in appena dodici minuti di utilizzo il nuovo arrivo riesce a combinarne di tutti i colori denotando una forma fisica preoccupante, un atletismo drammaticamente scomparso e un’inclinazione difensiva, da sempre sua debolezza ma allo stesso tempo perno imprescindile del sistema Heat, inesistente. Miami perde e l’ex Suns viene inchiodato alla panchina per 25 delle successive 28 apparizioni tra mille dubbi. Non era il rinforzo che si pensava potesse essere.
Eppure, si sa, le stagioni NBA sono lunghe, tutto può cambiare da un momento all’altro e risulta sempre alquanto avventato dare giudizi prima che questi possano effettivamente risultare conformi alla vero.
Il 20 gennaio scorso, in pieno tour de force con quattordici gare su sedici in trasferta, i Miami Heat subivano la terza sconfitta consecutiva a Washington perdendo per uno strappo muscolare Hassan Whiteside. Infermeria stracolma e morale a terra, Spoelstra non aveva alternative, doveva far partire titolare Stoudemire.
A Chicago, appena due giorni dopo l’ennesimo tracollo contro i Raptors, contro il pronostico di tutti, gli Heat sbancano lo United Center grazie ad un’ottima performance di Amar’e che in ventisei minuti prende dieci rimbalzi accompagnati da otto punti. Da quel momento in poi Miami vincerà sei delle successive sette gare ritrovando fluidità e un sistema offensivo rapido capace di velocizzare la manovra e privilegiare i continui movimenti di Deng e Winslow, tra i migliori in questo periodo. Dallo zero costante in ogni voce del tabellino, si passa ad una media di 8.9 punti conditi da 6.5 rimbalzi a sera per un totale di quasi venti minuti. Venti minuti di energia, fame, e grande sacrificio per tutti che fanno apprezzare la cura delle “piccole” cose che non vanno a referto come l’eccellente difesa su Brook Lopez dei Nets, marcato meglio (a parer nostro) di quanto abbia fatto Hassan in tutte le precedenti uscite stagionali. Possiamo dire che sia tornato ai livelli passati? Assolutamente no, sarebbe quanto di più scadente affermare una cosa del genere, eppure, possiamo facilmente ritrovare i motivi di un tanto inatteso quanto funzionale successo nella sua grande abilità di bloccare e chiudere i pick&roll con Wade, nella naturale inclinazione a dividersi il campo con Bosh o nella capacità di correre il campo meglio di ogni compagno di reparto. Se per molti versi la già citata perdita di atletismo o la difficoltà nel tenere gli scivolamenti laterali dei 5 più agili in una lega sempre più small tende a farsi sentire, si cerca di compensare con IQ cestitico decisamente elevato, aspetto tra i più sottovalutati di questo Stat 3.0.
Perché in fondo, quello che realmente conta, è mostrare che di quello Stat, qualcosa, è davvero rimasto.