L'EDITORIALE - Non basta una squadra, ce ne vogliono due: la grandezza dei Warriors
“Fear the deer”: giusto, perché i Milwaukee Bucks hanno confermato di essere una squadra dalle enormi, infinite potenzialità. “I Milwaukee Bucks hanno il vizio di interrompere le serie vincenti”: affermativo, ieri ci abbiamo speso un paio di righe per raccontarvi di questa singolare coincidenza. Ma permetteteci di offrire un altro punto di vista, che probabilmente esalta ancora di più l’impresa che i Golden State Warriors hanno compiuto, che fa parte di quella più grande che probabilmente compiranno a fine stagione. Perché, se vogliamo far parlare qualche numero, in prospettiva questa squadra potrebbe riscrivere il record di miglior regular season, appartenente a dei certi Chicago Bulls di un certo Michael Jordan nel ’96, con un tondo 72-10.
E diciamo che in questo senso assumono più significato anche le dichiarazioni di Jason Kidd, coach di questi Bucks, che dopo aver vestito i panni del biblico Davide nella disfatta dei Warriors, sciorina elogi per Curry, paragonandolo proprio al numero 23 più famoso del mondo.
E’ naturale che chiunque abbia seguito, incantato, le gesta di Golden State quest’anno, si sia chiesto com’è possibile che siano stati proprio i Milwaukee Bucks a stoppare i californiani, e non magari un’altra squadra da playoff con più valide referenze. E ce lo siamo chiesti anche noi. Per tutta la giornata di ieri. Finché, come la mela che cadde in testa a Newton, non c’è venuta l’illuminazione.
Troppo palesemente, i Warriors ieri hanno dovuto fare i conti con dei passaggi a vuoto spaventosi, principalmente nel primo quarto, dove praticamente non vedevano mai il canestro, specialmente dietro l’arco, e nell’ultimo, quando praticamente ogni azione dei Bucks diventava un gioco da tre punti che ha finito per ammazzare la partita ben prima della sirena. Segni inequivocabili di chi è in debito di ossigeno, tendenzialmente peggiore di quelli che si accusano nei back-to-back. Perché qualcuno, nella notte tra sabato e domenica, li aveva costretti agli straordinari con due overtime: i Boston Celtics.
Una squadra senza nomi illustri, il cui stipendio più alto che avranno a libretto l’anno prossimo sono i 12 milioni di un buon gregario come Amir Johnson, inseriti nel generale innalzamento del tetto salariale. Ma con un allenatore che crede nel proprio lavoro e nei propri giocatori, a cui sta dando una linfa inespressa fino ad ora. Difesa, gran bel gioco, rotazioni profondissime: quei pochi principi, banali ma fondamentali, per una buona stagione.
Questo per dire cosa, vi chiederete. La risposta è che, a nostro avviso, per battere Golden State ci sono volute due squadre. I Celtics prima, i Bucks dopo. Con gran parte del lavoro eseguita dai ragazzi di Stevens, Milwaukee è stata perfetta nella lettura della partita, azzannata nel momento giusto, e ha potuto contare su splendide prestazioni individuali, come la tripla doppia di Antetokounmpo(!) e i 28 di Monroe. Quindi, ricapitoliamo: per battere una squadra ed interrompere la sua striscia di 24 vittorie consecutive (28 se cominciamo a contare dall’ultima sconfitta della passata stagione) ci sono voluti 106 minuti in due giorni contro due organici diversi.
Perciò, segnatevi questo paio di cose: l’anno 2015, perché ha dato alla luce la pallacanestro entusiasmante dei Warriors; il 13 dicembre, perché sarà per sempre ricordato come la caduta dei giganti (Follett perdonaci). Per quanto nell’essere umano ci sia un’innata tendenza a parteggiare sempre per il più debole, se non tributate un applauso a questa squadra non è che non amate la pallacanestro. Non amate lo sport.