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STORIE DELL'ALTRO BASKET - The "Greatest Show on Court"

Raccontare la storia di uno dei personaggi più controversi della storia del Gioco non è cosa semplice, non tanto per le vicissitudini che hanno caratterizzato infanzia, adolescenza e carriera cestistica del nostro ma perché rischieremmo di perderci nei meandri della psiche umana, l’unica che non è stata ancora del tutto spiegata scientificamente. Da cosa partire? Da che momento della vita? Dall’infanzia o dall’eredità che ha lasciato al basket moderno? Per una volta queste domende non ce le siamo poste, cercando di far scorrere i pensieri così come vengono, perchè il nostro così va preso: senza troppi interrogative, senza troppe domande, senza pensar troppo ad eventuali spiegazioni. Una domanda, però, ve la forniamo e sarà la base del nostro racconto. Non sappiamo chi l’abbia pronunciata per primo, non sappiamo se sia stata detta realmente o solamente pensata per una frazione di secondo: “Why make the easy play when you can spin 360 degrees and throw a behind-the-back no-look pass?” ed è questa l’essenza più pura del più grande spettacolo mai visto su un campo da pallacanestro. Ladies & Gentlemen, benvenuti nel meraviglioso mondo di Jason Chandler Williams.

Una delle scienze che studia gli essere umani è la psicologia. Il primo ostacolo che devono superare gli studiosi di questa branca riguarda l’ambivalenza della nostra specie, perché dobbiamo essere considerati sia delle creature biologiche sia delle creature sociali. L’orientamento che considera i meccanismi psicologici legati alla biologia umana ritengono che l’origine dei pensieri e il comportamento risiedono nel cervello, nei muscoli e nel sistema nervoso. Per cui tutti i cambiamenti del pensiero e del comportamento derivano dai cambiamenti che avvengono nel sistema nervoso. Quando, invece, l’attenzione dello psicologo si sofferma sulla conoscenza afferma che, in quanto esseri umani, abbiamo una insopprimibile tendenza a formare rappresentazioni mentali di ciò che sperimentiamo e percepiamo. Quando osserviamo una persona ne osserviamo le azioni, ma traiamo anche delle conclusioni su come quella persona è fatta in base a ciò che traspare dal suo comportamento. Non sarà un trattato di psicologia, ma conviene tenere aperta questa icona, perché ci ritorneremo per chiarire due o tre passaggi chiave della storia di Jason.
Siamo in West Virginia, esattamente a metà degli anni ’70. Non abbiamo modo di testimoniare personalmente ma il clima che si respirava in quegli anni in quella particolare fetta di America è terribile, nel senso più stretto del termine. Ci viene in soccorso Boaz Yakin, regista di innumerevoli film tra cui Il sapore della vittoria – Remember the Titans. Se non avete avuto la possibilità di vederlo, rimediate immediatamente. Il contesto dove coach Boone dei Titans è chiamato a lavorare ha come base la più antica delle discriminazioni: il colore della pelle. Julius Campbell e Gerry Bertier, i due protagonisti, incarnano perfettamente prima l’odio e poi l’amore tra due persone dal differente colore della pelle, ma nonostante la vittoria in termini di squadra e in termini di umanità che raggiungono, la situazione non cambia. I bianchi contro i neri, i neri contro i bianchi. In questo genere di società lavora ormai da tempo Terry Williams, poliziotto di Belle, cittadina che conta appena 1.260 anime. Il 18 novembre del 1975 mamma Delana e papà Terry mettono al mondo il loro secondogenito, Jason Chandler. La famiglia non naviga in acque così tranquille e le condizioni economiche dei Williams non sono così floride: vivono praticamente in una roulotte a due passi da DuPont High School, scuola di cui papà Terry probabilmente funge da vigilante perché ha sempre con sé le chiavi della palestra. Questo mazzo di chiavi spesso sparisce dalla scrivania di Terry perché un già furbissimo bimbo le ruba, va in palestra, apre la cesta dei palloni e inizia a palleggiare e tirare. Prima ancora di andare a scuola, il piccolo Jason è già un ballhandler compiuto, a quattro anni palleggia già con entrambe le mani, a sette aveva già praticamente deciso che il basket doveva far parte della sua vita. Come ogni bambino che nasce dalle parti della Virginia, prima di arrivare allo step “basketball” devi passare per il baseball e soprattutto per il football.

Jason Williams in versione quarterback (angelfire.com)
Jason Williams in versione quarterback (angelfire.com)

Jason, infatti, ha lanciato in partite di baseball e ha giocato quarterback. Come da prassi, diventerà in adolescenza un eccellente giocatore di football. Un atleta naturale, con fiducia smisurata e quella sfrontatezza che non ti aspetti da un ragazzino. Oltre alle notevoli capacità di cui vi parleremo, Jason eccelleva anche in un altro ambito, non per forza positivo: al figlio di Terry piaceva tremendamente sfidare, giocare e soprattutto vincere contro le persone adulte. I loro atteggiamenti autoritari contro un bambino indifeso lo infastidivano tremendamente e, quindi, doveva trovare un modo per trasferire questo fastidio anche a loro. Secondo quanto afferma Sean, il fratello maggiore di Jason, si divertiva a tornare sempre 15 minuti dopo il coprifuoco solo ed esclusivamente per vedere la reazione stizzita dei suoi genitori.
Inizia la scuola e il nostro eccelle in matematica? In scienze? In materie umanistiche? Niente di tutto questo. Jason è considerato un hooky-player professionista, che detto così sembra uno sport attraente ma dalle parti nostre di può tradurre con un semplice “assentarsi da scuola senza il permesso dei genitori”. Con questi tipi di atteggiamenti un vivace ragazzino biondo di Belle cresce, fino ad arrivare, nel ’90, a frequentare quella stessa DuPont High School in cui si allenava da bambino. Nei suoi 4 anni con la maglia di DuPont, memorabili resteranno i suoi assist e i voli con il compagno di merende preferito, ovvero sia Randy Moss, passato poi alla palla ovale abbandonando quella a spicchi. I due divennero molto amici anche perché condividevano lo stesso atteggiamento nei confronti dell’autorità. Da un lato Moss ha avuto anche problemi più seri con l’autorità, mentre Jason, nonostante fosse spesso con Randy, non è mai arrivato a varcare una certa soglia. Randy e Jason divennero ancor più famosi nelle stagioni da junior e senior (1992-1993) tanto da costringere la scuola a far installare delle tribune aggiuntive alla palestra perché le leggende suoi loro alley oop avevano fatto rapidamente il giro dello Stato e non c’era spazio per tutti gli spettatori. “33 to 40” era la legge a DuPont HS, ovvero sia il #33 di Williams e il #40 di Moss. Jason inizia a mettersi in mostra (18 e almeno 10 assist a sera) e alla fine della stagione 1993-94 viene nominato USA Today West Virginia Player of the Year. I suoi numeri fanno drizzare qualche antenna ai piani di sopra e improvvisamente Belle, che contava all’epoca meno anime di quante ne avete lette in precedenza, si popola di scout di college pronti a offrire borse di studio a Williams.

"Sorry Randall Cunningham, but Rrandy Moss was my go-to-guy long before he was yours" L'amore tra compagni di squadra ai temp di Jason Williams.
“Sorry Randall Cunningham, but Rrandy Moss was my go-to-guy long before he was yours”
L’amore tra compagni di squadra ai temp di Jason Williams.

Ecco, il problema è proprio questo: le borse di studio vanno assegnate ai ragazzi meritevoli e Jason non rientrava in questa categoria accademicamente parlando. Aveva voglia di giocare per un college, ovviamente non per la formazione ma per il palcoscenico che il campionato gli offriva. La predisposizione per una visione di gioco alternativa, spettacolare e un controllo del gioco incredibile sono le prerogative di una carriera che è pronta a nascere, non senza qualche difficoltà. Già ai tempi dell’high school, Jason intraprende una relazione piuttosto complessa con un problema piuttosto diffuso in quegli anni negli States: l’uso della marijuana.
Providence con coach Rick Barnes. Questo era il piano di Jason, pronto a trasferirsi nel Rhode Island. Coach Barnes, però, partì per Clemson e  Jason dovette rivedere il suo progetto. Decise, non si sa per qual motivo, di iscriversi a Fork Union Military Academy in Virginia, mai terra promessa dei giocatori di pallacanestro che sognano l’NBA e posto più noto per la preparazione di giovani atleti seguendo dei rigori accademici universitari piuttosto restrittivo. “Bene, Jason ha deciso di impegnarsi seriamente e di svoltare” penserete. Dovete ricredervi subito, praticamente come fece Williams. La sua esperienza durò esattamente 3 giorni. La goccia che fece traboccare il vaso fu un vocabulary quiz con oltre 300 parole. Bene ma non benissimo per il nostro. Papà Terry suggerì la Marshall University dove Jason avrebbe trovato coach Billy Donovan – sì, quello che attualmente allena Westbrook e Durant – alla guida dei Thundering Herd. L’incontro col coach è determinante e Jason accetta di far parte della squadra. Per i semplici parziali: anno da matricola a 13.4 punti e 6.4 assist di media.
Dopo l’anno da rookie a Marshall University, coach Donovan accetta un contratto che arriva dai Florida Gators, la squadra della University of Florida. Jason non ci pensa su due volte: riarmiamo i bagagli e seguiamo il coach, suo nuovo mentore. È costretto, da regolamento, a non giocare nella stagione 1996-97 e non gli resta che concentrarsi sullo studio. Altro tiro, altro giro e altro tentativo fallito. Jason alza il telefono, chiama papà Terry e gli dice “Sto tornando a casa”. L’aiuto del padre nell’aiutarlo a ragionare è fondamentale e dopo qualche giorno Jason ritorna sui suoi passi. Dopo un anno coach Donovan premia la “pazienza” di Jason e lo fa partire in quintetto per i Gators. Fiducia pienamente ripagata: 17.1 punti e 6.7 assist, senza cambiare praticamente mai il suo modo di giocare, fatto di guizzi, di penetrazioni spericolate, di tiri da 3 punti e soprattutto di inimmaginabili passaggi. Anche qui, così come ai tempi di DuPont, i fan impazziscono per il loro playmaker che, intanto, è passato dal #33 al #55. Stando a quanto raccontano i più fini conoscitori della materia, con Jason Williams si iniziarono a vedere i primi flussi migratori da trasferta dei tifosi delle università, peculiarità sconosciuta fino ad allora. Pur di vedere le magie dei Williams, si va anche in trasferta. Mentre tutti ritengono che Jason corrisponde alla cosa più incredibile del college basketball, ecco di nuovo che ritorna l’amica fidata, quella della famosa relazione complicata. Viene beccato a fumare marijuana e viene espulso dalla squadra dopo appena 20 partite.

Un giovanissimo Williams con la canotta dei Florida Gators (gatorszone.com)
Un giovanissimo Williams con la canotta dei Florida Gators (gatorszone.com)

Non occorre obbligatoriamente girarci attorno, penso che anche la vostra idea sia questa: non era fatto per il college, non era lì perché teneva alla sua formazione. Era stanco di fingere che era in Florida per ricevere un’adeguata istruzione, era lì solo ed unicamente per mostrare al mondo che razza di giocatore è diventato. Nella primavera del ’98, a 22 anni quindi, Jason si dichiara eleggibile al Draft. Non fu una classe particolarmente pregiata se la paragoniamo ai due anni precedenti (quelli con Iverson, Marbury, Allen, Bryant, Nash nel ’96 e con Duncan, Billups e McGrady nel ’97). Alla prima viene scelto un rivedibile Olowakandi, al quale seguono Bibby, LaFrentz, Jamison, Vince Carter, alla 9 Dirk Nowitzki, alla 10 Paul Pierce, alla 32 Lewis. La settima scelta è dei Kings che, come sempre, non badano al talento generale del Draft ma preferiscono pescare un giovane che vada a completare il roster. Manca un playmaker a Sacramento e Geoffrey Michael “Geoff” Petrie, Executive dei Kings in quegli anni, decide di puntare su Jason Chandler Williams da Belle, West Virginia. Lo attende in California non coach Donovan bensì Rick Adelman, il vero perno degli incredibili Kings che arrivarono fino alla Finals. Il primo anno di NBA non fu semplice, anche per un ragazzo sbarazzino e sfrontato come Jason. L’impatto con i pro, insomma, non fu come lo sognava quando aveva 7 anni. Non si trova ancora a suo completo agio ma i numeri dicono esattamente il contrario: 12.8 di media e 6 assist a sera distribuiti ai vari Divac, Maxwell e Williamson.

Stringe, poi, una certa intesa con una star già affermata come Chris Webber, miglior realizzatore di media con 20 punti. Siamo nell’ano del lockout e le partite giocate sono appena 50. Si arriva ai playoff, visto il 27-23 raggiunto in RS. L’incrocio vuole che sulla strada dei Kings ci siano i Jazz che, con il giusto sforzo, si liberano di C-Webb e compagni. Come di solito avviene con i rookie, si sottostà alla leggi dei veterani: scherzi, divertenti pegni da pagare e tanto altro. Ma non nella vita di Jason, un vero e proprio out of ordinary. L’unico passo da rookie che ha conosciuto Williams è quella del nickname. Stephanie Shepard, un  media relations assistant dei Kings, ad attribuirgli il soprannome di White Chocolate. Il nickname si presta a molte interpretazioni. La spiegazione ufficiale di Shepard fu diplomatica ma nello slang chocolate si utilizza per indicare le persone di colore e lo stile di gioco di Jason sembrava proprio lo stesso di un giocatore nero del miglior playground. Essendo bianco, però, gli fu affiancato white, come per dire “è un bianco ma gioca esattamente come un nero”. Williams sempre di più ruba i cuori dei tifosi e diventa una vera e propria macchina da marketing: il suo soprannome spopola e le sue giocate fanno si che le maglie col suo nome sopra vengano vendute quasi senza sosta.

"Rookie of the year? JASON WILLIAMS. No doubt" scriveva Slam Magazine (slamonline.com)
“Rookie of the year? JASON WILLIAMS. No doubt” scriveva Slam Magazine (slamonline.com)

All’alba della nuova stagione, si consolida l’intesa col gruppo ormai più importante nella California del Nord: Chris Webber, Peja Stojakovic e Vlade Divac. Il sogno dei playoff, dopo l’ennesima stagione 12 punti e 7.3 assist, svanisce al primo turno contro dei Lakers semplicemente irreali. Nella stagione 2000-01, i Kings arrivano a 55 vittorie in RS e il piazzamento è decisamente più comodo. Intanto il roster migliora e, oltre ad una panchina resa sicuramente più valida rispetto alle stagioni precedenti, Petrie inserisce un giocatore perfetto da affiancare a Jason: Doug Christie. Ai Kings hanno colmato le lacune difensive che hanno caratterizzato le ultime due stagioni e si presentano alla nuova stagione carichi di aspettative. Dopo il terzo fallimento, la dirigenza decide di puntare in alto e si rende conto che con Jason in cabina di regia si ha un livello di spettacolo unico ma non un livello di gioco adeguato e allineato agli obiettivi della franchigia. Per tutto quel talento, la visione di gioco è troppo irregolare e inaffidabile per i gusti di Adelman. Arriva in aiuto dei Kings la solita vecchia conoscenza di Williams che, a quanto pare, perde il pelo (in ogni senso, visto che quel ciuffo biondo non c’è più) ma non il vizio. Jason viene trovato positivo alla marijuana e viene sospeso per cinque partite. Per lo stesso motivo dei Gators, i Kings decidono di voler cedere White Chocolate. Oltre alla sostanza stupefacente, vanno aggiunti dei gesti osceni durante le gare, dei commenti fuori luogo ai tifosi, e rimarcando parole piuttosto insensibili nei confronti di asiatici e omosessuali. Risultato: 25.000 bigliettoni di multa e la città di Sacramento che lo mette alla porta. Alla fine della stagione, dal caldo della California si passa al gelo di Vancouver, dove si trovava la franchigia dei Grizzlies, grazie ad un trade che coinvolge Mike Bibby, suo collega di Draft.
Il trasferimento a Memphis della franchigia non smuove le cose e gli alti e bassi della squadra sono sempre costanti. C’erano più alti e bassi a Memphis, ma Jason continua a migliorare i suoi numeri: nella prima stagione sotto la guida di coach Sidney Lowe, fa registrare la sua più alta media punti e la sua più alta media assist della sua ancor giovane carriera (14.8 + 8). I risultati, però, mancano clamorosamente. Viene messo, a differenza della precedente esperienza californiana, maggiormente al centro dell’attacco e, il 12 gennaio 20101, firma il suo massimo in carriera: 38 punti con 6 triple e 11 assist. Coach Lowe perde le redini dello spogliatoio e a metà seconda stagione arriva Hubie Brown come head coach. Coach Brown, che bazzicava in NBA come vice allenatore prima ancora che Jason Williams nascesse, aveva smesso di allenare e si era dedicato a fare l’analista TV per la CBS prima e per TNT poi. In più di una occasione, col suo classico stile, non aveva perso occasione di criticare aspramente il gioco di Williams. Le condizioni fisiche del coach over 70 non sono ottime ed è costretto a lasciare temporaneamente: la squadra viene affidata ad un folto gruppo di assistenti, tra cui il figlio Brendan. Il giovane Brown si scontra in più di un’occasione con Jason Williams ma il culmine si raggiunge quando White Chocolate spinge via durante il terzo quarto di una partita Brendan Brown. Jason si scuserà ma il rapporto si incrinerà quasi definitivamente. Dopo l’ennesima sceneggiata tra i due in diretta TV, il GM Jerry West rese noto che Jason Williams non faceva più parte dei piani dei Grizzlies e che doveva accasarsi altrove. Il primo a lasciare il Tennessee, per, è coach Brown che per problemi di salute abbandona la panchina.

Coach Hubie Brown mentre spiega un gioco a Jason Williams. Grasse risate (sportige.com)
Coach Hubie Brown mentre spiega un gioco a Jason Williams. Grasse risate (sportige.com)

Arriva al suo posto coach Mike Fratello, altra personalità forte. La storia ci insegna che due personalità forti o si amano e ci accettano subito o si odiano e si detestano. Con Williams, che nel frattempo si è ribellato anche a Stephanie Shepard non accettando più il suo appellativo e preferendo J-Will o White Boy, si realizza la seconda. Un confronto piuttosto acceso negli spogliatoi tra i due, con tanto di volo di penne e lavagnette, viene filmato e diffuso dai media e anche il capitolo Grizzlies giunge al termine.

I continui scontri, la sua sregolatezza, la sua eccessiva voglia di imporre la propria idea a tutti i costi fa calare il desiderio di averlo in una squadra NBA al top. Insomma, la star vista ai Kings non è più così ambita. Circolano comunque tante voci sulla sua prossima destinazione e, a detta di chi era accanto a lui, la smorfia fatta quando il suo agente gli comunicò che i Celtics avevano chiesto di lui non fu quella di un bambino che riceve il regalo più bello del mondo. Tutt’altra reazione, invece, ci fu quando si accostò nuovamente il nome di J-Will alla Florida. Pat Riley e i Miami Heat chiesero di lui e gli occhi di Williams tornarono ad illuminarsi. Era la meta ideale: due campioni come Wade e Shaq e un ruolo da comprimario che, a quel punto della carriera, non dispiaceva al figlio di Terry. Un’altra importante mossa fu giocata da O’Neal che ha sempre dimostrato grande voglia di voler giocare con un talento unico come quello di Williams. I due erano stati molto vicini nel lontano 1998, quando i due potevano essere compagni di squadre, sempre in Florida ma più a nord, a Orlando. Dunque, dopo le pressioni di Shaq, Riley si convince e acquisisce i talenti di Jason  Chandler Williams. Il 2 agosto del 2005, White Boy rimette piede in Florida dopo quel brutto episodio con i Gators. Arrivò insieme a James Posey, uno che in quella cavalcante stagione giocherà minuti piuttosto importanti con Williams accanto. Al media day si presentò in stile J-Will: arrivò in palestra con una scatola piena di penne da distribuire ai giornalisti, in memoria dell’incidente di Memphis con Mike Fratello. In quello stesso giorno, dopo questo siparietto simpatico, promise cose forti per una persona come lui: “Mi impegnerò al massimo per stare lontano dai riflettori e per mettermi in mostra sotto una nuova luce”. Che in Florida arrivi una persona molto diversa rispetto a quella vista al college ce ne accorgiamo subito: mantiene la promessa e non combinerà guai, anzi. Giocherà una pallacanestro più che solida – ciò non vuol dire che non ci sia spettacolo – e l’alternanza con The Glove, Gary Payton, lo farà crescere ulteriormente. Un flashback è doveroso: una delle giocate più famose con la quale si presentò alla NBA fu proprio un crossover incredibile sull’ex playmaker dei Seattle Supersonics che, con fare di sfida, lo guardò come solo lui sa fare. Ora condividono lo stesso spot a Miami. I numeri sono in calo, così come i minuti ma l’efficienza del suo gioco non è calcolabile (chiuderà il primo anno con 4.9 assist e 12.3 punti a gara). La cavalcata trionfante del 2006 si conclude con una vittoria che sembra insospettabile.

Jason Williams, i tatuaggi in crescita e il suo trionfo più grande. Correva l'anno 2006. (nbatrky.com)
Jason Williams, i tatuaggi in crescita e il suo trionfo più grande. Correva l’anno 2006. (nbatrky.com)

Quando sembrava tutto finito, quando sembrava tutto ormai spento, ecco l’incoronazione di J-Will che accanto a Wade, Posey, Shaq, Payton e Antoine Walker diventa campione NBA. I suoi quasi 10 di media nelle 23 partite dei playoff 2005-2006 furono preziosissimi per gli Heat.  A Miami resterà altre 2 stagioni, chiudendo questa parentesi con più di 10 di media e più di 5 assist a sera. Il viaggio di un campione termina con le stagioni ai Magic e di nuovo ai Grizzlies ma, dopo l’anello, un tendine del ginocchio ha cominciato a far capricci e le condizioni fisiche sono andate calando un po’ alla volta.

Vi abbiamo parlato delle sue avventure da bambino, del contesto in cui è cresciuto, delle scelte giuste o sbagliate che ha preso nella sua vita, delle sue squadre, dei suoi rapporti controversi con il mondo, con le regole, con le istituzioni. E non vi abbiamo raccontato il passaggio col gomito (non dal gomito) a LaFrentz nel suo rookie game, non vi abbiamo raccontato delle avventure con Webber, delle urla dopo i suoi passaggi, dei suoi capelli, dei suoi tatuaggi particolari, della sua visione di gioco inappropriata per qualsiasi mente sana. Sono tante le cose che non vi abbiamo raccontato ma esistono cose che non possono essere spiegate, descritte. Anzi, forse sarebbe meglio dire che non vanno spiegate, perché trovare qualcosa di logico, di razionale in tutto quello che ha disegnato sul parquet un artista come Jason Williams andrebbe a rovinare tutte le opere d’arte che ha prodotto nella sua carriera. Quando ci si trova davanti a quadri come La Venere di Botticelli, come Lo stagno delle ninfee di Monet, come la Guernica di Picasso o I tagli nella tela di Fontana, sarebbe logico spiegare stilisticamente e artisticamente le scelte dell’autore ma sarebbe ancor più giusto restare in silenzio ad ammirare l’impresa che determinati geni hanno compiuto per regalarti emozioni. Lo stesso ragionamento va fatto per tutto quello che ha fatto su un campo da pallacanestro White Chocolate. Da grandi fan del ragazzo del West Virginia, abbiamo consumato ore e ore di video tra VHS e youtube ma siamo sempre stati colpiti dal titolo di uno dei video: Jason Williams Is Physically Incapable of Making a Routine Chest Pass (https://www.youtube.com/watch?v=qeEuaxo3dXo), che in maniera non letterale può essere reso con un giocatore “fisicamente incapace di eseguire passaggi facili”. Per descrivere al meglio la sensazione che suscita in noi una giocata di J-Will bloccate il video al minuto 2:40. Ecco, il volto di quel bimbo, a metà tra l’incredulità di aver visto una cosa mai pensata e il pensiero di aver avuto un’allucinazione, è il miglior risultato che siamo in grado di offrirvi.

Quando la maggior parte dei giocatori va in pensione, ci si guarda alle spalle per vedere cosa si è stato in grado di realizzare e cosa meno, se si sono raggiunti gli obiettivi che si erano prefissati ad inizio carriera e potenzialmente quella stessa carriera quanto vale la pena essere ricordata. Jason Williams, che con gli standard c’entra come l’uovo di Pasqua a Natale, non ha bisogno di questo processo, di questo flashback per poter valutare cosa e come ha cambiato questo Gioco. In 12 anni di NBA non è mai stato un realizzatore e non potrà essere ricordato per questo. Non è mai stato un compagno di squadra ideale e anche questa mettiamola via. Non è mai stato probabilmente un uomo squadra, visti i trascorsi burrascosi con diversi allenatori. Probabilmente non può essere ricordato neanche come un esempio di vita da seguire, visti i suoi trascorsi con la droga. Il suo nome sarà sempre associato ad un gioco diverso, lontano dalle regole abituali, lontano dalla pallacanestro giocata da Stockton, giocata da Thomas, giocata anche da Magic. Il suo nome sarà sempre associato all’incredibile inclinazione per un delle modalità di passaggio che non si erano mai viste: appariscenti, estrose, eccentriche, mai banali e, soprattutto, uniche. Ma no è da confondere solo come un parco giochi umano, come un intrattenimento. Jason era un giocatore di pallacanestro che vedeva il Gioco diversamente dagli altri ma non per questo non paragonabile ai più grandi playmaker della storia. Sarà sempre ricordato come quel giovane e sbarazzino playmaker che incantava tutti facendo volare Randy Moss, sarà sempre ricordato come uno degli avversari più umilianti che questo sport abbia prodotto. Il campo dice altro: tiratore, veterano negli ultimi anni della sua carriera, non sempre sotto controllo ma spesso efficace per la sua squadra. Ma le leggende non si creano sempre con la pulizia, con il nitore stilistico e neanche con un perfetto stile di vita, senza mai uscire dai ranghi. Le leggende si distinguono per aver cambiato il modo di pensare, di concepire uno spazio, un movimento, un tiro o anche un semplice passaggio. Per noi, Jason Williams, è e resterà sempre una leggenda perché è stato The “Greatest Show on Court”.

About The Author

Salvatore Malfitano Classe ’94, napoletano, studente di legge e giornalista. Collaboratore per Il Roma dal 2012 e per gianlucadimarzio.com, direttore di nba24.it e tuttobasket.net. Appassionato di calcio quanto di NBA. L'amore per il basket nasce e rimarrà sempre grazie a Paul Pierce. #StocktonToMalone